“Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccia, rispondo: ‘Io sono’”. Ma chi fosse veramente lei stessa, Leonor Fini (Buenos Aires,1907-Parigi, 1996), in realtà questa donna ribelle e dal fascino ambiguo, non lo seppe mai. Né sarà in grado di scoprirlo pienamente neppure il visitatore, scorrendo le immagini inafferrabili e perturbanti della mostra Io sono Leonor Fini, a lei interamente dedicata al Palazzo Reale di Milano fino a 22 giugno.
Piuttosto l’osservatore sarà sollecitato ad interrogarsi sulla propria identità, come del resto auspicano apertamente i curatori dell’esposizione Tere Arcq e Carlos Martin, che hanno organizzato un itinerario di oltre cento opere tra dipinti, disegni, fotografie, costumi e video, scandito in nove sezioni tematiche, che illustrano visioni e ossessioni di una pittrice la cui vita è stata volutamente costruita da lei come un’opera d’arte.
“La verità è che i percorsi della mia pittura sono sconosciuti a me come a chi li contempla. Sapendo che trattano di me, di questo io espressamente travestito, mascherato, tradotto, evocato, apolide da se stesso, a volte riesco, con una certa ingegnosità, a distinguere un segno che potrebbe indicare questo o quello; la mia intuizione o deduzione possono essere corrette, ma a volte sospetto anche il contrario”. Ecco una dichiarazione illuminante della Fini, che rispecchia anche il mondo in dissoluzione in cui maturò la sua vocazione artistica, quello della cultura mitteleuropea in declino della Trieste in cui visse gli anni della sua infanzia, con i singolari eventi biografici che l’hanno segnata.
Non possiamo non citare gli svariati travestimenti, anche maschili, imposti dalla madre alla piccola, in tenerissima età, insieme al cambio di nome per sfuggire ai tentativi di rapimento da parte del padre, che non accettava la separazione dalla figlia. O le visite all’obitorio di Trieste di Leonor Fini appena adolescente, dove ebbe la visione sconvolgente e insieme morbosamente attraente del primo uomo nudo, senza vita ma di una bellezza straordinaria, i cui echi ritroviamo nella seconda sezione della mostra L’uomo inerme – morte o sonno.
Morte e nascondimento, che si trasformeranno in maschera e travestimento, hanno dunque queste radici oscure anche familiari, vissute in una dimora borghese dominata da donne forti e colte, la madre e le prozie, che si riflettono in dipinti provocatori. Per esempio in Sfinge nera che veglia sul sonno di un giovane, in cui è evidente che lo slancio vitale della pittrice-sfinge non è del tutto oscurato dall’apparente assenza di vita, che richiama la morte.
La morte però non risparmia nemmeno le donne da lei dipinte, come si vede nel quadro L’inondazione, dove la protagonista seduta non riesce a opporsi all’acqua che sale inesorabilmente; o in cui è già immersa in un’atmosfera di fine ineluttabile. Come nel dipinto Il confine del mondo: l’acqua è stagnante e della figura femminile emerge solo il busto circondato da qualche teschio.
In simbiosi con la morte c’è l’amore, con immagini inquietanti che comunque vogliono rimarcare l’indipendenza e la forza della donna che si impone all’uomo: è così in Donna seduta su un uomo nudo o nelle strazianti trasformazioni di figure femminili, che diventano streghe che compiono strani riti, sirene, creature ibride o sfingi, personaggi appartenenti ad un mondo onirico aperto al meraviglioso e al provocante.
La sfinge è il simbolo prediletto dalla pittrice, come si vede nella stranamente leggiadra Sfinge arancione, entrata nel suo immaginario dall’originale scultura egizia del castello di Miramare a Trieste, che la Fini frequentava spesso, accanto alle potenti figure allegoriche femminili ammirate nelle opere pubbliche della sua città.
Insofferente alle regole e aperta a nuove strade nella sua ricerca artistica e di vita, Leonor Fini abbandona presto la Trieste di Svevo e Saba, dove si è dedicata con successo al ritratto, e si sposta a Milano, che oggi la celebra, dove, con l’amato Achille Funi, entra in contatto con i più importanti artisti dell’ambiente meneghino: Carrà, Sironi, Campigli e De Chirico. Ma lei cerca altro, ed è attratta da Parigi, anche grazie a Max Jacob che le fa incontrare il mondo dei surrealisti e non solo, con personaggi come Dalí, Miró, Max Ernst (che la definì “la furia italiana di Parigi”), Picasso (che lei tentò invano di sedurre su un taxi), lo stesso André Breton, fondatore del Surrealismo, giudicato però troppo autoritario e rigido.
Tra feste scintillanti e amori scandalosi, realizza in libertà dipinti di stampo surrealista, ma anche con risonanze classiche come L’Alcova, con rimandi alla Danae di Tiziano Vecellio in chiave capovolta o altre opere con citazioni colte di pittori del Quattrocento e del Cinquecento italiano da lei ammirati: uno su tutti, Piero della Francesca.
Donna di debordante successo, Leonor Fini arriverà ad esporre anche al Museum of Modern Art di New York e disegnerà la boccetta del profumo Shocking a forma di busto per la stilista e costumista Elsa Schiaparelli. Condusse certamente una vita sociale brillante, mostrandosi con i travestimenti più sorprendenti. Donna enigmatica ed ammaliatrice, ben aldilà dell’immagine dell’intrigante ma rassicurante Autoritratto con cappello rosso con cui si conclude la mostra, si è dedicata anche a produzioni per il teatro, l’opera, il balletto e il cinema (per Fellini), realizzando scene e costumi per il Teatro alla Scala di Milano.
Decisamente in anticipo per i suoi tempi, Leonor Fini ha sofferto in realtà l’immagine da lei stessa costruita di artista conturbante, visionaria, ribelle e mai convenzionale. Vissuta senza un padre e con una madre dominante, si è scelta un’identità che oggi definiremmo fluida, che sembra averle tolto ogni appartenenza certa di genere, di ideali, di famiglia, per rivoluzionare se stessa e il mondo. Ma il suo grido “Io sono” e i suoi dipinti non sembrano celebrare davvero una riuscita umana e artistica compiuta. E noi oggi ravvisiamo la tristezza e l’incertezza profonda che l’hanno segnata e che forse spiegano l’oblio in cui è caduta per un lungo periodo.
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