Passi per le maestranze bizantine che nel XIII secolo, su input di papa Innocenzo IV ancora ignaro (forse…), narrarono in figura, sulle pareti della Basilica dei Santi Quattro Coronati a Roma – uno dei luoghi più suggestivi di Roma – la fiction della Donazione dell’imperatore Costantino il quale, accomiatandosi da Roma per installarsi a Bisanzio, concedeva a papa Silvestro, il santo della fine dell’anno, la primazia sui patriarcati apostolici e la supremazia temporale della sede romana su alcuni territori. Che ne potevano sapere quei bravi artisti, le cui opere tuttora ammiriamo?
Il filologo Lorenzo Valla doveva ancora nascere e scoprire nel 1440 il carattere apocrifo del Constitutum Constantini che tanto aveva fatto adirare Dante, il quale peraltro lo riteneva autentico: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion (e certo, con essa erano cessate le persecuzioni! ndr), ma quella dote che da te prese il primo ricco patre”.
Ma Raffaello Sanzio, divino pittore e dotto umanista, che a XVI secolo ormai ampiamente iniziato – sempre su input pontificio, d’accordo – ricrea quella fanfaluca ormai sbugiardata!
Non si può evitare il pensiero, visitando l’ultima delle Stanze affrescate per il Papa, quella per l’appunto di Costantino, dove il pontefice riceveva autorità e ospiti illustri circondato da pitture che ribadivano la legittimità del suo potere spirituale e temporale, che magari il più riottoso Michelangelo – che lavorava a una cinquantina di metri di distanza, in Sistina – si sarebbe ribellato a riprodurre una tale conclamata fake news…
Una riflessione che non fa però velo all’ammirazione della Sala di Costantino appena restaurata dopo un’impresa decennale, iniziata sotto Antonio Paolucci e conclusa con Barbara Jatta regnante. Un restauro che ormai assume i contorni di un’opera collettiva, non più legata all’occhio e alla mano d’uno solo.
È stupefacente la confluenza di indagini e di saperi storici e scientifici convogliati per rimettere a nuovo questi 800 metri quadrati di affresco, la più ampia delle Stanze di Raffaello – sebbene lui a causa della morte prematura non abbia potuto partecipare alla fase esecutiva, affidata ai suoi discepoli Giulio Romano e Giovanfrancesco Penni e, per la illusionistica volta, a Tommaso Laureti – anche se non c’era bisogno di quest’ennesima prova di bravura dei laboratori vaticani per riconoscerne l’eccellenza mondiale (per ossequio al merito citiamo Francesca Persegati, Fabio Piacentini, Paolo Violini e il compianto Guido Cornini, ma sono molte di più le persone coinvolte).
I contorni delle miriadi di figure rappresentate nelle varie scene e la scintillante vividezza cromatica ripristinati non sono gli unici risultati del restauro, c’è anche la conferma dell’attitudine sperimentale di Raffaello di cui sono state con certezza individuate le due figure della Iustitia e della Comitas, dipinte di sua mano a olio, tecnica che gli allievi che completarono l’opera preferirono non adottare per i rischi di tenuta nel tempo.
E se si pensa che gli invasori-razziatori francesi di fine Settecento, avidi del classico Raffaello a dispetto dei loro impeti rivoluzionari, coltivarono l’idea di staccare gli affreschi e portarseli al Louvre – insieme al lauto bottino di arte italiana raccolto sull’intera penisola e poi recuperato (parzialmente) da Antonio Canova alla provvidenziale caduta di Napoleone –, si tira ancora oggi un sospiro di sollievo tinto di indignazione.
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