Sul caso Unicredit-Bpm Renzi, Pd e stampa amica tentano di insinuarsi nell'ipotetica distanza tra Giorgetti e Meloni. Che non c'è
L’opa lanciata da Unicredit su Bpm sta ridisegnando gli equilibri tra i partiti di governo. Le forze che parevano più rivali, Lega e Fratelli d’Italia, si sono riavvicinate, mentre torna ad aleggiare lo spettro di Forza Italia che strizza l’occhiolino almeno ai centristi del Pd, oltre che a Renzi e Calenda. Potenza del risiko finanziario che si gioca attorno al destino dell’ultima, grande banca popolare italiana.
Ad innescare la partita è stata la secca presa di posizione del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che ha utilizzato il golden power a tutela di Bpm bloccando la scalata di Unicredit. Imporre un veto simile è un diritto dell’esecutivo, e va detto che il governo ha fatto bene a muoversi per tutelare una delle poche banche rimaste presenti sul territorio vicine alle attività produttive che lottano per non soccombere alla crisi economica, ai costi dell’energia e alle asfissianti normative europee.
Se Giorgetti ha agito con tanta sicurezza è perché sapeva e sa di avere le spalle coperte. Il “silenzio” della Meloni, se nel novembre scorso poteva suscitare legittimi interrogativi, stavolta dice che la presidente del Consiglio ha condiviso il pugno battuto sul tavolo dal suo ministro, giunto al punto di minacciare le dimissioni.
Lo scontro con Forza Italia è frontale. Antonio Tajani parla di “difesa delle imprese”, in realtà la sua è la difesa di una sola impresa: Unicredit. Il partito fondato da Silvio Berlusconi sta diventando il protettore delle lobby, in questo caso dei gruppi di pressione finanziari, e su questa strada ha incontrato compagni di cammino come Matteo Renzi ed Elly Schlein.
L’ex rottamatore si è scandalizzato, parlando su MF di un golden power usato “per difendere le dinamiche di casa sua, della Bpm”: eppure è proprio quello che dovrebbe fare un sistema Paese – lo sanno bene Giorgetti e la Lega – mentre lui, da premier, con la riforma delle banche popolari le ha svendute alla grande finanza. Ed è proprio questo che è diventata Unicredit: anziché restare una banca di territorio, come era ai tempi delle casse di risparmio che le hanno portato in dote ingenti capitali, la banca guidata da Andrea Orcel è diventata un colosso della finanza che si muove in contesti internazionali, che guarda alle borse più che alla crescita dell’economia reale, che risponde a logiche di massimizzazione dell’utile anziché della produzione e del lavoro.
Il Nord produttivo ha bisogno di banche più simili a Bpm che a Unicredit. Richiede un assetto finanziario che vada in aiuto delle aziende bisognose di capitali da investire. Invece, per tutelare gli interessi delle grandi banche (e degli utili che esse garantiscono ai loro azionisti), qualcuno scomoda i massimi princìpi liberali che verrebbero violati dalle scelte del governo. “Il golden power è l’arma nucleare che i governi possono usare solo in situazioni di rilevante interesse nazionale”, ha detto ieri Renzi a MF. L’opa Unicredit-Bpm “dovrebbe essere risolta dal libero mercato, non dal dirigismo statalista dell’esecutivo”.
La posizione di Renzi, oppositore del governo, è comprensibile nell’ottica di una strategia politica anti-Meloni ma non certo se si guarda all’interesse del Paese. E come Renzi la pensa il Pd.
Se ci sono fibrillazioni interne alla maggioranza, queste sono date soprattutto dai recenti risultati delle elezioni amministrative e dalle nomine di metà mandato alla guida delle commissioni parlamentari. Nel pacchetto di nomine c’è anche quella della Consob, la commissione di controllo sulla borsa il cui presidente Paolo Savona decadrà tra quasi un anno: non a caso è tra quelli che si è messo di traverso sull’uso del golden power.
Le pressioni dei mercati e dell’Ue sulla Meloni si moltiplicano, tentando di insinuarsi nell’“attendismo” della premier, ma non sanno che stavolta la presidente del Consiglio ha già deciso. Se infatti i piccoli risparmiatori sono estranei a questa partita, ritenendo che una banca vale l’altra, imprenditori e associazioni del Paese che produce hanno capito benissimo qual è la posta in gioco. E sono pronti a ricordarselo nei prossimi appuntamenti elettorali.
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