Quando Beniamino Zuncheddu torna a parlare della sua storia, lo fa con un tono fermo, ma turbato da 33 anni vissuti dietro le sbarre da innocente, un periodo che ha inevitabilmente segnato la sua vita e che, come lui stesso ha detto in un’intervista a “Dritto e Rovescio”, lo ha privato di tutto: dei sogni, della famiglia che avrebbe voluto costruire, della possibilità di vivere con libertà la propria giovinezza ed oggi guarda anche ad altre storie, e in particolare a quella di Alberto Stasi, condannato per l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco, e afferma di vedere in lui un’altra possibile vittima di errori giudiziari, un ragazzo che, a suo dire, potrebbe non aver mai avuto giustizia.
Durante la conversazione con la trasmissione di Paolo Del Debbio, Beniamino Zuncheddu ha ripercorso le tappe della sua odissea giudiziaria e ha raccontato di aver sentito il mondo franare sotto i piedi al momento della condanna – era il 1991, lui aveva solo 27 anni, qualche risparmio da parte e un’idea di futuro ancora tutta da costruire – invece è finito in carcere, accusato della strage di Sinnai, un delitto che non aveva commesso, e che lo ha portato all’ergastolo, fino alla sentenza di revisione che lo ha definitivamente assolto nel gennaio del 2024.
Parlando della sua esperienza ha detto che il momento della sentenza è stato come essere “impacchettato e messo al buio”, come se qualcosa si fosse spento per lunghissimi anni e poi fosse tornato solo dopo che la verità è emersa e, secondo lui, la giustizia italiana continua a essere un meccanismo che non sempre funziona come dovrebbe: lo ha detto chiaramente nel corso dell’intervista, sostenendo che quando sbaglia un cittadino le conseguenze arrivano subito, ma quando sbagliano giudici o tribunali, difficilmente qualcuno ne risponde.
Guardando al caso Garlasco ha usato parole dirette e senza esitazioni, affermando che “quel ragazzo di Garlasco” – facendo riferimento ad Alberto Stasi – non sarebbe altro che una vittima come lo è stato lui, facendo così un parallelismo non tanto nei dettagli giudiziari, quanto nella sensazione di impotenza, nella solitudine di chi si sente travolto da un sistema che non riesce a difendersi.
Beniamino Zuncheddu: il peso di un errore giudiziario durato 33 anni
Beniamino Zuncheddu, pastore sardo originario di Burcei, è stato assolto con formula piena dopo una lunghissima detenzione iniziata nel 1991; la sua condanna all’ergastolo per l’omicidio di tre pastori nelle campagne di Sinnai è stata completamente ribaltata dalla Corte d’appello di Roma nel 2024, dopo che nel 2019 la procuratrice Francesca Nanni aveva deciso di riaprire il caso in seguito di un dettaglio mai considerato prima e da quel momento, la sua storia è diventata uno dei simboli lampanti di quanto possa essere devastante un errore giudiziario, non solo per chi lo subisce, ma anche per tutti coloro che sono intorno, spesso senza risposte per anni, se non interi decenni.
Nelle parole di Beniamino Zuncheddu emerge un senso profondo di ingiustizia ma anche una consapevolezza amara: ha affermato di essere sempre stato convinto che un giorno o un altro la verità sarebbe venuta fuori, ricordando che in quei lunghi anni ha vissuto portandosi dentro un peso difficile da raccontare – e oggi, anche se libero, continua a usare la sua voce per denunciare una realtà che non si può ignorare, quella di un sistema che – secondo lui – può sbagliare, ma fatica a correggere i suoi errori e soprattutto a prendersene la responsabilità.
Il suo commento sul caso di Alberto Stasi nasce da qui, da questo vissuto personale che lo porta a empatizzare con chi, come lui, si è trovato solo di fronte a un’accusa pesante e alla difficoltà di dimostrare la propria innocenza; ha poi spiegato che non conosce tutti i dettagli del caso, ma che ciò che gli ha colpito è il percorso, quel senso di isolamento, quella sensazione di essere finiti dentro qualcosa di molto più grande, contro cui diventa difficile difendersi.
Beniamino Zuncheddu oggi, nonostante non abbia ancora visto un centesimo del risarcimento che gli spetterebbe, non cerca rivincite, ma giustizia vera e lo fa chiedendo che si apra una discussione più seria e trasparente su come viene amministrata, perché – dice – se una persona può finire in carcere per 33 anni senza aver fatto nulla, allora qualcosa va cambiato, e non si può far finta di niente, anche solo per rispetto di chi nel silenzio ha perso una vita intera aspettando che qualcuno ammettesse di aver sbagliato.