Le parabole sono storie in cui ogni particolare interroga le profondità dell’ascoltatore, a patto che quest’ultimo accetti di farsi toccare. La storia che arriva da una piccola cittadina alle porte di Cassino è una parabola che ha per protagonista una bambina che, in una delle tante mattine di quell’età senza tempo che è la seconda elementare, si prepara per andare a scuola.
È la mamma ad aiutarla, mentre il papà è già a lavoro: le viene preparata la colazione, i vestiti, lo zaino. Poi, d’un tratto, la mamma cade e s’addormenta. La bimba prova a svegliarla, ma è tardi e bisogna andare a scuola, in un edificio non troppo lontano da casa. La maestra, vedendo la piccola arrivare senza mamma – ma soprattutto senza quel giubbottino che in inverno i genitori sempre ti mettono addosso per ripararti dal freddo – chiede che cosa sia successo. “Mamma è a terra. Dorme, non si alza”.
La maestra capisce e chiama il papà, chiama i soccorsi, desta l’allarme della comunità. Ma non c’è più nulla da fare: la mamma non c’è più e quel profumo di latte, che ogni giorno porta il sapore del risveglio nella vita di tanti, si candida a diventare atroce memoria dell’ultimo atto di una vita che ha smesso di esserci. Orfana.
Come sono orfani tutti coloro a cui mancano i genitori in un tempo in cui ce n’è ancora molto bisogno. Ci sono orfani di sei anni, ma anche orfani di quaranta.
E c’è, per tutti, quella metafora inquietante che è parabola dell’esistenza: la mamma, ciò che ci dà vita, ciò da cui proviene parte del nostro vivere, s’addormenta, muore. Come gli amori che ci hanno tenuti desti per anni, come le persone in cui avevamo posto fiducia infinita, come il gusto per il lavoro, la gioia di una scelta: ciò che prima ci dava vita – e ci teneva in vita – ad un tratto si spegne, non c’è più.
Infarto, dicono i medici. Mistero, diciamo noi. Ciò da cui ci sentivamo amati, curati, protetti, un giorno finisce, scompare. E come per inerzia, come in una parabola, noi continuiamo a vivere. Ci mettiamo addosso il nostro zaino e facciamo finta di nulla. Ma chiunque ci incontri lo sa che non siamo più gli stessi, lo sa che c’è qualcosa che non torna, che non va. Perché è morto ciò che ci faceva vivere.
Questa storia non parla di lacrime, ma parla di qualcosa di più terribile e profondo: il senso straziante di una perdita che la bambina sembra non conoscere, ma che il suo cuore – forse – sa già. E non basta che altri ci amino, che arrivi nostro padre, la maestra, gli amici, la comunità: ci sono ferite che nessuno può avere la pretesa di curare.
Ci sono giorni che ci cambiano per sempre e che ci lasciano nudi davanti al grande bivio dell’esistenza: o maledire, e cercare i colpevoli, o maledire, e vivere per sempre in quel dolore, o maledire, e sentirsi privati di ciò che era giusto e che ci è stato tolto senza alcun motivo. Oppure andare avanti. Ma andare avanti non è farsi forza, non è farsi coraggio, non è sostenersi a vicenda in un momento oscuro e difficile. Andare avanti è permettere che dentro di noi si faccia strada una strana idea: che quel corpo morto, quel corpo che abbiamo visto cadere e addormentarsi, possa ancora vivere.
Assurdo, completamente assurdo. Ma molto meno assurdo che vivere la data di una morte – qualsiasi morte – come la data della nostra morte. Assurdo, completamente assurdo. Ma molto meno assurdo che trascorrere il resto dell’esistenza nel presentimento di una colpa, di una responsabilità, in quella morte, che non esiste. Assurdo, completamente assurdo. Ma meno assurdo di chi bestemmia e chiede conto a Dio di una vita che non c’è più, di un amore spezzato, di una famiglia mortalmente ferita.
E se fosse vero? Se lei tornasse a muoversi? Se lei ricominciasse a vivere? Se davvero non fosse finito tutto nei concitati momenti in cui la maestra capiva e s’allarmava? Saremmo di fronte ad un nuovo inizio, ad un’altra storia. Che quella madre risorga non è l’ultimo capriccio di uomini irrazionali che non s’arrendono alla morte. Che quella madre risorga è l’ultima ipotesi della ragione davanti al dramma della vita. Tutti sappiamo che è finita. Tutti sappiamo che quel matrimonio non c’è più, che non c’è più quella spensieratezza, quel gusto, quell’amicizia, quel tepore. Ma se poi riaccade? Se poi succede di nuovo? Se poi dura? Se poi continua?
C’è stato un tempo in cui eravamo bambini e facevamo credere a tutti di non aver capito che cosa fosse la morte. Ma c’è un tempo, e forse è adesso, in cui ci impegniamo per far credere a tutti di non aver capito che cosa sia la vita. Una delicatissima possibilità.
Come un inaspettato risveglio. Come quando, convinto che sia ormai notte, ti rendi conto che laggiù in fondo – dove lo sguardo si perde – c’è ancora una luce non convinta, una luce non vinta. E te ne torni a casa, pieno di domande e di lacrime, pieno di quello strano sentimento che si prova nelle case dove hai amato tanto e dove adesso ci sono solo insopportabili ricordi, con un’indicibile verità nel cuore. Non è ancora finita. In tanti non lo ammettono, ma sono tanti a saperlo. L’ultima parola nella storia, in ogni storia, non la conosciamo ancora. E in fondo è questa certezza l’origine della speranza.
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