Un biglietto senza ritorno per la guerra. La scelta del governo Netanyahu di riaccogliere in maggioranza Itamar Ben-Gvir e il suo partito ultranazionalista sancisce, di fatto, il ritorno al conflitto come unica strada per risolvere la questione palestinese, eliminando definitivamente Hamas. Un obiettivo, quest’ultimo, che lo stesso premier israeliano sa di non poter raggiungere, ma che gli serve per compattare l’esecutivo e proseguire la sua carriera politica.
Netanyahu, osserva Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, sfrutta il fatto che gli americani non hanno ancora deciso quale sarà la loro strategia in Medio Oriente e teme che il conflitto a Gaza rientri nelle trattative USA-Russia sull’Ucraina, come corollario di un più vasto accordo che definisca nuovi equilibri mondiali.
Per questo ha deciso di riprendere i combattimenti da dove li aveva lasciati: il bilancio di morti a Gaza, anche ieri, ha superato quota 100. A Khan Younis sono stati 15. L’opzione militare rischia di trasformare la Striscia in un luogo talmente invivibile da rendere inevitabile l’allontanamento dei palestinesi.
Il ritorno di Ben-Gvir nel governo israeliano significa che ormai la guerra è una scelta dalla quale non si torna indietro?
Credo che la linea ormai sia questa. Formalmente è stata giustificata come pressione sul negoziato, ma in realtà la trattativa è già diventata qualcos’altro rispetto all’ipotesi su cui aveva lavorato prima l’amministrazione Biden e che poi è stata sancita dall’accordo: la seconda fase doveva iniziare a metà febbraio, dando il via a una discussione, che ovviamente Israele non voleva affrontare, sull’assetto definitivo dell’area, in cui Hamas avrebbe detto la sua. Un dibattito che avrebbe sancito anche formalmente il fatto che Israele non era riuscito a raggiungere l’obiettivo che si era prefisso: la distruzione totale dell’organizzazione palestinese.
Un obiettivo che rimane tale? L’IDF ricomincia a combattere per questo?
Nella ritualità della liberazione degli ostaggi, Hamas ha voluto simbolicamente esibire la sua forza. Ma, al di là di questo, c’è il fatto che, come era prevedibile, secondo i servizi americani è riuscita ad arruolare addirittura tra i 20 e i 25mila militanti, in sostituzione di quelli che sono stati in qualche modo perduti durante l’anno e più di conflitto. Netanyahu ora non si vuole fermare, perché ritiene di avere un quadro politico favorevole a livello regionale, con Iran ed Hezbollah in difficoltà, ma ha anche fretta, perché teme che Trump sia più imprevedibile di quanto si dica.
Cosa potrebbe fare il presidente americano?
Mettersi a trattare direttamente con Hamas, come ha fatto fino a qualche settimana fa, oppure accordarsi con Putin prevedendo concessioni anche sul fronte mediorientale, legando la trattativa sull’Ucraina alla questione del nucleare iraniano e a quella palestinese: se ci sarà un accordo con Mosca, potrebbe riguardare più in generale gli equilibri mondiali.
Per Netanyahu c’era la necessità, in politica interna, di far tornare Ben-Gvir in maggioranza, perché senza i suoi voti il governo si sarebbe trovato in difficoltà in un quadro internazionale di cui il premier non ha ancora certezza. La soluzione della guerra garantisce la continuità politica sua personale e del gabinetto. Ci vorrebbe davvero un attore terzo che riesca a imporre la ripresa dei negoziati, ma non c’è. Si rovescia la situazione rispetto all’Ucraina, dove sostanzialmente l’America impone la sua versione della pace.
Gli USA, prendendo di mira gli Houthi, hanno aperto la strada agli attacchi a Gaza. Poi, però, Trump, pur non contraddicendo Netanyahu, è rimasto in silenzio. Come si spiega questo atteggiamento degli americani?
L’amministrazione statunitense sta ancora elaborando una sua linea di politica estera. Sbagliano quelli che pensano che sappia già come muoversi in tutti i settori, in Europa o in Medio Oriente.
Non si sa ancora quale sarà la strategia americana di medio e lungo periodo, non solo sul breve, ma su quello che verrà dopo. L’ipotesi di Gaza come Palm Beach è apparsa per quello che è esattamente e non credo sia praticabile, visto che nessuno accetterebbe lo spostamento dei palestinesi. Bisogna vedere, comunque, se la Casa Bianca non rimarrà schiacciata sul governo Netanyahu o se invece farà una scelta di pieno appoggio.
Al di là del fatto che il progetto della Riviera del Medio Oriente è difficile da realizzare, in questi giorni si è parlato di trasferire i palestinesi in Somalia, in Etiopia, in Siria. Tornata la guerra, il futuro dei palestinesi è l’esodo dalla Striscia?
Sopravvivere a Gaza, come è stato fatto finora, oltretutto in condizioni abitative assolutamente difficili e con l’interruzione dei rifornimenti, è sempre più problematico, ma è anche vero che, per spostare i palestinesi, ci vuole un’azione militare, di forza, che appare inconcepibile e inaccettabile dalla comunità internazionale. I Paesi arabi confinanti hanno detto di no e nemmeno l’Arabia Saudita, impegnata nel suo programma Vision 2030, è interessata.
È chiaro che la tecnica militare potrebbe essere quella di rendere talmente inabitabile la Striscia, come è già di fatto, da rendere praticamente impossibile la sopravvivenza in quelle condizioni, portando così all’esodo volontario.
La prospettiva del governo Netanyahu sembra quella di una guerra senza fine. Dicono di voler distruggere Hamas, che però non cede e quindi si continua fino a non si sa quando. Ma il Paese è disposto ad accettare una situazione del genere? Alcuni sondaggi parlano di insofferenza della gente al prolungamento dei combattimenti. È così?
Il Paese è sicuramente stanco, però bisogna considerare la situazione anche dal punto di vista della psicologia collettiva. Coloro che alimentano la contestazione a Netanyahu, anche sulla vicenda degli ostaggi, rappresentano minoranze importanti, attive, ma sempre minoranze. Siamo ormai in una situazione in cui non si tratta più di una rappresaglia, ma di una guerra con obiettivi strategici importanti, che sono persino di ridefinizione dei confini.
La maggioranza degli israeliani oggi, però, per quanto non apprezzi interamente l’operato di Netanyahu, ne condivide sostanzialmente le linee di fondo e quindi, su questo, è difficile pensare che si produca una crisi interna.
C’è qualcosa che può cambiare questo quadro?
La continuazione della guerra permette a Netanyahu di preservare se stesso e la sua maggioranza, anche in funzione dei suoi problemi personali di carattere giudiziario. Insomma, il conflitto è funzionale a spostare sempre più in avanti le contraddizioni, sperando appunto che poi le situazioni si modifichino. L’unico elemento che può cambiare lo scenario è la definizione, da parte degli americani, di una strategia più ampia. Gli israeliani contano su se stessi, ma non potrebbero operare in un certo modo senza l’avallo americano. Occorre capire come si muoverà la Casa Bianca attorno a questo tema.
(Paolo Rossetti)
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