Cosa sia accaduto a Palermo prima delle stragi di mafia e che cosa abbia portato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino alla morte è uno dei grandi misteri che giacciono negli anfratti di quella che fu la “prima repubblica”. Un tempo complesso che di misteri ne ha tanti, da Ustica alla strage di Bologna, e che nel suo percorso storico ha contenuto delle grandi ingiustizie e dei grandi drammi, tutti figli della necessità di tutelare la Repubblica italiana da una minaccia reale o presunta, ovvero il comunismo alle porte.
È in quel contesto storico che la mafia trovò la sua ragion d’essere nei rapporti con le istituzioni, come sistema di potere informale che poteva garantire una risposta paramilitare a un eventuale tentativo di occupazione del Paese da parte di forze comuniste, fossero esse interne o esterne.
È in quel contesto che la mafia e i suoi capi intrattennero rapporti con servizi deviati e potentati stranieri che ne consentirono la crescita e lo sviluppo.
Chiunque facesse all’epoca emergere un barlume di civiltà giuridica e di autonomia da quel percorso venne di fatto sacrificato senza che mai colpevoli reali venissero allo scoperto.
Questo sistema di potere aveva radici profonde, e uomini liberi come i due magistrati tentarono di spezzare quel giogo aggredendo direttamente un sistema fortissimo e con profonde connessioni.
Se, volendo tratteggiare uno scenario, immaginassimo che davvero è esistito un accordo per tenere assieme i poteri formali dello Stato e quelli informali della mafia, uniti da un unico obiettivo politico, come lascerebbe intendere la storia della Sicilia a partire da Portella della Ginestra, lo Stato, nei suoi esponenti, doveva piegarsi a rispettare quel patto.
Perciò le affermazioni di Carmelo Canale, ufficiale dei carabinieri, sulla volontà di Paolo Borsellino di arrestare addirittura l’allora procuratore capo della procura di Palermo, possono apparire o come l’affermazione un po’ stravagante di una personalità che ha ricordi non nitidi, oppure come la prova che a un certo punto delle loro battaglie Paolo Borsellino e Giovanni Falcone avevano perfettamente intuito che quella contro cui stavano combattendo non era una mafia di paese o un’organizzazione dedita semplicemente a fare soldi, ma il braccio armato ed informale di uno Stato profondamente corrotto nelle sue finalità, piegato alla necessità di tutelare se stesso da un male esterno, il comunismo, contro cui ogni cosa era non solo ammessa ma addirittura necessaria.
Solo in questo contesto storico si potrebbero spiegare tante strutture che il nostro Paese ha vissuto in quegli anni e che altrimenti non trovano un’altra spiegazione nei silenzi di tanti uomini delle istituzioni e di tanti esponenti politici a cui tutto si può imputare tranne che la finezza di pensiero e l’intelligenza.
Solo così ci si può rendere conto fino in fondo di quanto fosse limitata la democrazia nel nostro Paese fino alla caduta del muro di Berlino; solo così le affermazioni di testimoni scomodi e il loro modo estemporaneo di esternare, trovano una giustificazione in questo enorme puzzle.
Il punto resta sempre lo stesso e cioè se il Paese è pronto a guardare l’immagine che viene fuori dalle singole tessere e vedere se stesso come un oggetto manipolato per finalità più alte, come un’espressione democratica limitata, deviata, a tratti piegata alle necessità e ai bisogni di menti astute e criminali che utilizzarono i loro rapporti e i loro servigi per mantenere potere e controllo sul territorio in cui vivevano.
Solo così, con la caduta del muro di Berlino, si spiegherebbe l’inversione di rotta che tanti hanno notato dal 1993 in poi, ovvero da quando, dopo le stragi, la mafia come entità strutturata e politica ha iniziato ad inabissarsi e a ritornare ad essere un consesso di soggetti dediti esclusivamente al malaffare e al denaro, senza più l’ambizione di esercitare una strutturata e coordinata egemonia territoriale.
Senza tutte queste congetture, la morte di tanti uomini diventa incomprensibile, così come diventano meno accettabili i ricordi di chi fu loro vicino.
Il punto – di nuovo – è capire se questa verità può essere dimostrata dagli storici o trovata nelle aule di tribunale. Tutte le volte che si è tentato di processare i grandi eventi di quegli anni, dalla strage di Ustica all’assassinio di Moro, dalla strage di Bologna a quella dell’Italicus, le verità giudiziarie sono apparse sempre parziali e confuse, in alcuni casi addirittura contraddittorie, perché la verità delle aule di tribunale resta un fatto tecnico-giuridico, mentre la verità della storia è l’unica a cui guardare per potersi giudicare e migliorare.
Se ancora oggi quei testimoni sono in vita ed alcuni di essi tacciono in maniera così pervicace, la spiegazione non può essere solo la paura di essere giudicati da un tribunale, bensì, soprattutto, quella di essere giudicati dalla storia.
Perciò faremmo bene a tenere a mente i testimoni che oggi ci appaiono quasi estemporanei nelle loro affermazioni, perché da loro potrebbe venire una luce nuova che ci aiuta a capire per davvero che cosa siamo stati, per provare a decidere in futuro che cosa vogliamo diventare.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.