Sabato 28 gennaio. Aula Magna dell’Università La Sapienza. Fila 1, posti 26 e 24. Solita postazione per me e mia moglie per ascoltare i concerti dell’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) che, senza dubbio, tra gli enti musicali della capitale offre il programma, soprattutto di cameristica, più stimolante e quindi più affollato.
Ancora quartetti, anzi un quartetto e un quintetto. Quasi subito dopo la terza puntata dell’integrale dei quartetti di Dmitrij Shostakovich (1906-1975) in cui il Quartetto Prometeo si è cimentato con quelli del 1956- 1960. Periodo difficile per la vita privata e l’esperienza artistica del compositore: un breve matrimonio con Margarita Andreevna Kainova, concluso da un tormentato divorzio, la fuga all’estero dei suoi grandi amici Mstislav Rostropovič e Galina Višnevskaja, le difficoltà con le alte sfere del mondo musicale sovietico, nonostante il compositore fosse membro del Parlamento e avesse incarichi e onorificenze sia in Patria, sia nel resto del mondo.
Nel concerto IUC si fa un salto indietro di circa un secolo, dalla metà del Novecento al cuore del Romanticismo, per affrontare la produzione di Johannes Brahms (1833-1897) in un momento delicatissimo, quando nel quartetto e nel quintetto di archi entra il pianoforte con le funzione di guida e sprone, nonché di moltiplicatore della potenza sonora e della versatilità dell’insieme.
Sono stati eseguiti Quartetto n. 1 in sol minore op.25 ed il Quintetto in fa minore per pianoforte ed archi, rispettivamente del 1861 e del 1865. Il complesso era costituito da Giorgia Tommasi (piano), Gabriele Pieranunzi (violino), Fabrizio Falasca (violino), Francesco Fiore (viola), Danilo Squitieri (violoncello), noti artisti di valore. È stato registrato da Radio Vaticana che lo trasmetterà in tutto il mondo.
Il Quartetto in sol minore fu eseguito per la prima volta nella sala dei concerti di Amburgo, con Clara Schumann che sedeva al pianoforte. Molto benevola l’accoglienza sia del pubblico sia della critica, anche se non mancarono i primi strali più o meno velenosi lanciati dall’agguerrita critica viennese contro Brahms, il quale avrebbe dovuto aspettare molti anni per essere considerato un musicista di grande statura nei Paesi di lingua tedesca.
Il lavoro è di ampie proporzioni e abbastanza elaborato strumentalmente, con il pianoforte in posizione dominante, pur nel pieno rispetto del gioco contrappuntistico con gli archi. Il primo tempo si è imposto all’ascolto sia per la varietà dei temi (sono tre) che per la ricchezza del discorso musicale, avvolto in un clima di dolce e affettuosa malinconia tipicamente brahmsiana. A una introduzione basata sul primo tema, segue un’ esposizione sui tre temi principali; nello sviluppo successivo il compositore si serve solo del primo tema, cui fa seguito una riesposizione con tutti e tre i temi, e l’Allegro si conclude con una coda di classica linearità. L’Intermezzo (Allegro ma non troppo) è una pagina di delicato lirismo, tutta soffusa di un sentimento di poesia autunnale; significativo è l’episodio centrale più leggermente vivace nelle sue evanescenti e chiaroscurate sonorità. L’Andante con moto si apre con una melodia calda e distesa del violino, proiettata con intensità di vibrazioni e trascinante con sé gli altri strumenti. Nella seconda parte del movimento l’atmosfera espressiva diventa vigorosa e marziale, quasi una eco di canti e inni tedeschi di estrazione popolaresca. L’Andante si conclude con un ritorno alla stessa sognante tessitura iniziale. L’ultimo tempo è un indiavolato Rondò di carattere zingaresco, che si ricollega allo spirito di quelle danze ungheresi così magistralmente trascritte da Brahms, che da giovane aveva compiuto numerose tournée concertistiche con il famoso violinista di Budapest, Ede Reményi. Per due volte tra i ritmi festosi e travolgenti di una musica tzigana fa capolino una curiosa cadenza, raffigurante una inaspettata stretta di mano tra Bach e Liszt.
Molto buona la lettura datane del complesso dall’apertura dell’Allegro iniziale da parte di Giorgia Tomassi al maestoso degli archi al flusso melodico del violoncello, pieno di calore. Ottime le combinazioni ritmiche e contrappuntistiche.
Complessa la storia della composizione del Quintetto in fa minore per pianoforte ed archi. Inizialmente concepito per un organico di cinque archi (con due violoncelli), Clara Schumann nota l’evidente squilibrio tra il grandioso contenuto musicale e la veste strumentale scelta per esprimerlo. Brahms avvia la rielaborazione del materiale musicale sotto forma di sonata per due pianoforti. Il ritorno alla tastiera, con la quale Brahms aveva maggiore dimestichezza, si spiega proprio in riferimento a quel bisogno di pienezza sonora che i soli archi non riuscivano a rendere. Ma anche questa versione non è soddisfacente. Brahms ritorna, per altra via, agli archi: riconosce al pianoforte l’incapacità di trasmettere la ricchezza espressiva e il timbro cangiante propri degli archi. Sceglie un nuovo e definitivo organico, che riunisce gli archi e il pianoforte. Così, il Quintetto op. 34 acquista un tocco d’individualità straordinaria, in cui il compositore risolve il problema della convivenza tra due entità foniche differenti, riservando al pianoforte un ruolo di primaria importanza, di stampo concertante, e assegnando agli archi il compito di trasmettere, grazie a un’infinita serie di giochi e rimandi timbrici, il senso di una spazialità di tipo sinfonico-orchestrale. Tale straordinarietà è la chiave di lettura scelta dal complesso.
Essa ha affascinato il pubblico che ha risposto con vere e proprie ovazioni e richieste di bis. L’ensemble ha risposto con il secondo movimento del Quintetto in mi bemolle maggiore per pianoforte e archi, op. 44 di Robert Schumann, una struggente marcia funebre.
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