Due premier del centrosinistra andati a Chigi col voto popolare, sul senso del referendum la pensano diversamente da Schlein. E dal suo Pd
L’attivismo mediatico dei Romano Prodi e Massimo D’Alema – i due veri premier del centrosinistra nella seconda repubblica – pare confermare lo scenario di un referendum sulla giustizia che diventa una tornata di primarie nell’opposizione assai più che un ennesimo tentativo di spallata al governo. Un “referendum interno” votato a chiarire gli equilibri nell’intera area un anno prima dal voto politico. Senza escludere sommovimenti strutturali: anzitutto in un Pd sempre più inquieto attorno alla leadership di Elly Schlein.
Quando Prodi e D’Alema nel 1996 si allearono nell’Ulivo, la Margherita innalzava ancora il vessillo della Dc, mentre il Pds era ancora l’erede diretto del Pci. Trent’anni dopo, il Pd – nato nel 2007, dopo la seconda vittoria elettorale di Prodi – si può considerare un partito fallito, anzitutto per non essersi mai imposto in un voto politico dalla sua nascita. Alla sua sinistra M5s ha stravinto nel 2018; alla sua destra FdI ha guidato alla vittoria la sua coalizione nel 2022, ma già la Lega aveva inanellato due centri nelle politiche 2018 e alle europee dell’anno successivo.
Per un decennio i dem hanno esercitato un potere anomalo in una democrazia ibrida – principalmente per il ruolo di Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella al Quirinale – ma quell’era appare chiusa. E se il prossimo voto politico è una scadenza obbligata, sono comprensibili le spinte interne al Pd per far uscire il partito dall’immobilismo di governo maturato nella fase Monti–Renzi–Conte–Draghi. E che appare la causa inerziale dell’impasse dem, più della performance della segretaria in carica dal 2022.
Prodi ha aperto la sua campagna negando – per la prima volta – che nell’Italia di Giorgia Meloni la democrazia sia a rischio: contraddicendo quindi frontalmente il mantra di tutte le piazze antagoniste, siano guidate da M5s piuttosto che dalla Cgil di Maurizio Landini.

In questo è parso evidente anche l’intento di sganciare subito il Pd dal possibile collateralismo strategico al “No” alla riforma della giustizia, già agitato dall’Associazione nazionale magistrati (Anm) e da M5s (significativo in questa direzione anche un intervento sul Foglio di Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia del Prodi 1 e poi presidente della Corte Costituzionale durante il Prodi 2).
Nel frattempo, pur avendo sostenuto Schlein nella “battaglia di Bologna” delle elezioni regionali del 2020, il professore emiliano accusa oggi la leader Pd di non avere creato in tre anni un progetto politico minimo, attento ai problemi degli italiani e realmente concorrenziale con la maggioranza di governo.
Se i contenuti del “nuovo vangelo Pd secondo Prodi” non sono ancora noti, resta più che visibile la suggestione della riemersione forte di una corrente cattodem nel Pd, se non addirittura di una “nuova Margherita”. Di un soggetto proattivo in un centro frammentato fra Azione e Italia Viva ma potenzialmente esteso a forze della maggioranza come FI e Noi Moderati piuttosto che a settori della Lega come quello capeggiato dal governatore uscente del Veneto, Luca Zaia.
D’Alema è parso invece scegliere il terreno geopolitico per derubricare il referendum sulla giustizia. Il primo e unico premier ex comunista della storia repubblicana – poi scissionista a sinistra dal Pd con Liberi e Uguali – ha detto che l’Italia deve recuperare anzitutto iniziativa geoeconomica, assieme agli altri Paesi Ue. E se vuole contrastare il ciclone Donald Trump in tutte le sue violenze, l’Europa non può che riaprire il dialogo con la Cina.
È un fronte su cui lo stesso D’Alema è in prima fila: a fianco di Prodi, ex presidente della Commissione Ue. Entrambi oggi impegnati nel brokeraggio di alte relazioni con Pechino. È uno dei molti campi in cui il Pd di Schlein latita, fra disimpegno verso il mondo delle imprese (sempre più sofferenti fra dazi, sanzioni, euro-finanza disorientata) e silenzi geopolitici sempre più imbarazzanti.
Nessuno invece può dimenticare che nel pur breve governo D’Alema si realizzò la “madre di tutte le Opa” su Telecom – da parte degli imprenditori della “razza padana” – e l’Italia intervenne senza esitazioni nell’operazione Nato guidata dagli Usa dem contro la Serbia filorussa.
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