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Home » Musica e concerti » I Protagonisti » BRIAN WILSON/ Addio al ragazzo della spiaggia che sognava una estate senza fine

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BRIAN WILSON/ Addio al ragazzo della spiaggia che sognava una estate senza fine

Paolo Vites
Pubblicato 13 Giugno 2025 - Aggiornato alle ore 14:33
Brian Wilson

Brian Wilson

È morto a 82 anni Brian Wilson, leader e fondatore dei Beach Boys, il più grande genio della musica del Novecento

Adesso che, con l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan, le canzoni rock sono state definitivamente sdoganate e riconosciute al pari delle opere di Yeats, Thomas Mann, Pirandello e tanti altri giganti della parola, è giunto il momento di compiere un ulteriore passo: riconoscere che anche certa musica rock merita di stare accanto ai grandi compositori della tradizione classica – Mozart, Beethoven, Bach, Chopin.


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Purtroppo, un Premio Nobel per la Musica non esiste. Eppure, senza voler trasformare l’arte in una gara o ridurla a classifiche di merito, è evidente che due autori storicamente inquadrati nell’ambito della “musica pop” – ovvero, della musica leggera – come Brian Wilson e Paul McCartney, meritano di essere annoverati tra i più grandi. Starebbero degnamente, con passo sicuro e animo luminoso, accanto ai nomi appena citati.


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Due geni totali e assoluti. Due spiriti che hanno riscritto e trasfigurato il linguaggio musicale del Novecento, incidendolo nella storia in modo profondo, eterno, struggente. Brian Wilson se n’è andato in queste ore, all’età di 82 anni. Paul McCartney, per fortuna, continua a camminare tra noi – e lo vediamo ancora sorridere sotto i riflettori dei palcoscenici del mondo, portando avanti la sua eterna sinfonia.

Non è un caso se McCartney ha saputo sprigionare il meglio della sua ispirazione dopo aver ascoltato Pet Sounds, l’album-capolavoro dei Beach Boys, opera di Brian Wilson. In un’intervista, raccontò di aver regalato a ciascuno dei suoi figli una copia di quell’album, perché – disse – l’educazione musicale di nessuno poteva dirsi completa se non aveva ascoltato Pet Sounds. Aggiungeva che fu proprio quel disco a ispirare i Beatles nella creazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il loro monumentale tentativo di superare quanto Wilson aveva realizzato.


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A sua volta, Brian Wilson cercò di rispondere a quella vetta, ma lo sforzo si tramutò in abisso: non riuscì a eguagliarlo, e quel confronto lo spinse verso la caduta – nella malattia mentale, nella frantumazione del sé. Ma quella è un’altra storia, o forse la stessa storia vista da un altro punto del cielo.

Pet Sounds e Sgt. Pepper’s non sono solo due dei più grandi dischi del Novecento: sono autentica musica classica contemporanea. Non imitano la tradizione: la proiettano nel futuro. Sono sinfonie moderne, immortali.

Il modo in cui Wilson concepì e realizzò Pet Sounds, per quel periodo storico in cui gli studi di registrazione erano ancora alquanto elementari, è qualcosa di semplicemente prodigioso. Ancora oggi, a oltre sessant’anni di distanza, il disco suona come se fosse stato composto domani. È fresco, commovente, visionario. Ha tracciato una nuova via, ha definito uno spartiacque nella storia della musica pop, mostrando che lo studio di registrazione poteva diventare esso stesso uno strumento creativo.

Wilson registrava ogni sezione separatamente – basso, percussioni, archi, voci – su nastri a 4 o 8 tracce, per poi sovrapporre nuove linee vocali, nuovi strumenti. Lavorava con spartiti complessi, seguendo un metodo che chiamava “costruzione per strati”: partiva da batteria e basso, e poi aggiungeva armonie, orchestrazioni, onde di suono. Come disse qualcuno, stava componendo “una sinfonia adolescenziale per Dio”. In seguito avrebbe detto: “Presto imparai che, quando escludevo il mondo, riuscivo a sintonizzarmi con una musica misteriosa, donata da Dio. Era il mio dono, e mi permetteva di interpretare e comprendere emozioni che non riuscivo a esprimere a parole”.

Pet Sounds è un viaggio emotivo. Contiene la speranza, la malinconia, la gioia, la paura, l’incanto e la perdita. È la mappa di un cuore umano, raccontato senza difese.

Canzoni di una delicatezza suprema – Wouldn’t It Be Nice, God Only Knows, Sloop John B., Caroline, No – raccolgono l’eredità dei primi Beach Boys, quei “ragazzi della spiaggia” che, con melodie solari e leggere, avevano raccontato la bellezza della giovinezza, dell’oceano, delle ragazze della California, del sogno eterno di un’estate che non finisce mai. E poi naturalmente quell’inno a tutto quello che la California e il suo sogno rappresentavano, Good Vibrations, che rimase fuori da Pet Sounds perché Wilson ci mise sette mesi a registrarla, ma che ne è il manifesto inossidabile.

Era un’utopia tutta americana: la libertà era una tavola da surf, il futuro un orizzonte aperto, il tempo semplicemente sospeso. Chi ha visto il film capolavoro Un mercoledì da leoni sa perfettamente cosa intendiamo.

I Beach Boys di inizio carriera con i loro innocenti inni da spiaggia come Barbara Ann, California girls, In my room, Surfin’ safari e tante altre erano l’immagine vivente della spensieratezza americana: ragazzi bianchi, sorridenti, in camicia hawaiana, colonna sonora vivente del boom economico. Alla radio, negli anni ’60, erano ovunque. Sembravano invincibili.

Ma Pet Sounds cambiò tutto: Wilson prese quel sogno e lo immerse nella malinconia, nella consapevolezza della fragilità. L’innocenza si fece introspezione. Il sole della California si velò, e dentro quelle canzoni iniziò a cantare qualcosa di più profondo, qualcosa che non si poteva più dire a voce alta.<

Basti pensare a I Just Wasn’t Made for These Times, un brano che è una confessione, un grido dolce e disperato di chi si sente inadeguato in un mondo troppo piccolo per il proprio cuore:

I keep lookin’ for a place to fit in / Where I can speak my mind…

They say I got brains / But they ain’t doin’ me no good…

Sometimes I feel very sad…

I guess I just wasn’t made for these times.

Brian Wilson ha pagato un prezzo altissimo per questa sua vocazione al sublime.

Cresciuto sotto l’ombra di un padre autoritario e abusivo, Murry Wilson, che gestiva i Beach Boys come un comandante, Brian sviluppò da giovane una fragilità emotiva profonda. Era un ragazzo che, letteralmente, portava la mano destra sul petto per proteggersi.

La sua sensibilità esplosiva, unita all’uso di droghe come LSD e marijuana, fece detonare quel nucleo di trauma. Dopo Pet Sounds, Wilson entrò in un lungo stato catatonico. La droga divenne un tentativo disperato di autocura. Ma peggiorò ogni sintomo: allucinazioni uditive, pensieri ossessivi, isolamento, crolli emotivi.

Gli fu diagnosticato un disturbo schizoaffettivo. Per oltre quarant’anni, disse, ha sentito voci nella testa, ogni giorno, tutto il giorno. “Devo ripetere loro: ‘vattene, non parlarmi’”, raccontava.

Affidato a uno psichiatra criminale che lo sfruttò economicamente, visse anni cupi e senza voce. Fu la seconda moglie a salvarlo, a riportarlo – almeno in parte – alla vita, ai concerti, alla memoria.

Con la morte di Brian, se ne va l’ultimo dei fratelli Wilson, i ragazzi della spiaggia che non sapevano neanche fare surf. Nel 1983 era morto il bellissimo Dennis, batterista e grande consumatore di droghe e alcol, paradossalmente annegato in quell’oceano che aveva sempre cantato. Nel 1998 morì il secondo fratello Carl, voce di tante canzoni del gruppo, per tumore.

Brian Wilson non era fatto per questi tempi. Era un’anima d’altri mondi, un viaggiatore che vedeva ciò che noi non possiamo.

Ci hanno lasciato in eredità il sogno di un’estate infinita, e melodie di struggente bellezza che ancora oggi, e per sempre, continueranno a vibrare nei cuori di chi sa ascoltare.

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