Non è facile per chi fa musica rock sfuggire alla sindrome di Peter Pan. Essendo la musica rock per definizione una musica “giovane”, fatta da giovani per altri giovani (anche se i giovani di oggi non l’ascoltano più), invecchiare ed essere lo stesso credibili è una impresa che è riuscita a pochi. E’ anche una impresa arrivare a essere vecchi facendo musica rock, d’altro canto. La lista dei morti lasciata nei suoi oltre 50 anni di storia è impressionante. Morti giovani ovviamente, per i motivi più diversi e nei modi più diversi anch’essi, ma quello che la massa e l’intellighenzia hanno sempre applicato, dai tempi di James Dean, è l’assioma “vivi al massimo, muori giovane e lascia un bel cadavere”. O, per dirla con le parole di una canzone rock che qualcuno, come Kurt Cobain, ha preso maledettamente sul serio, “è meglio bruciare con una fiammata che scomparire lentamente”.
Non ci vengono in mente molti nomi di artisti rock che hanno accettato di invecchiare, hanno accettato di avere l’età che hanno senza fingere di essere per sempre Peter Pan, cosa che invece riesce benissimo a Mick Jagger. “Non voglio crescere, sono ancora naive, giovane, selvaggio e libero” cantavano i Ramones mentre viene da chiedersi che cosa provi Pete Townshend quando canta oggi a 70 anni la sua My Generation: “Spero di morire prima di diventare vecchio”. Ovvio, direte, quello che canta Townshend è uno stato d’animo, non un certificato di nascita.
Personalmente penso a Bob Dylan e a Bruce Springsteen che compie oggi 70 anni, come i due esempi di artisti rock che hanno accettato serenamente la loro età. E se è vero che il rocker del New Jersey ha fatto il trapianto di capelli e se li unge generosamente di colorante e si tiene in forma fisica spettacolare, Dylan fa “musica per vecchi”: non pubblica un disco di canzoni a sua firma da oltre sette anni e pubblica invece dischi di canzoni rese celebri da Frank Sinatra, brani che risalgono agli anni 30 e 40, abbondantemente prima della nascita del rock’n’roll. Fa cioè musica che corrisponde alla sua età, quasi 80 anni. E la fa benissimo.
Anche Springsteen, anche se ha promesso per l’anno prossimo un disco e un tour con la E Street Band, “un disco rock”, in questi ultimi tempi si è messo a fare “musica per vecchi”, sebbene lui canzoni a sua firma ne faccia ancora. Negli ultimi anni si è dedicato a ripassare la sua vita, con la bellissima autobiografia che ha svelato tratti inediti che nessuno sospettava, come la fortissima depressione che lo insegue da tutta la vita. Può un musicista salire su un palco e trasmettere energia, positività, voglia di vivere ma essere un depresso? Springsteen ha dimostrato di sì, e senza dubbio quel salire sul palco è stata per lui la migliore terapia. Naturale conseguenza di quel libro è stato un anno intero di concerti a Broadway dove quella biografia l’ha portata dal vivo, in completa solitudine, una chitarra e un pianoforte soltanto. E ha presentato uno spettacolo assolutamente inedito nella storia del rock, una persona anziana che racconta davanti a migliaia di persone cosa significa essere giovani e “fuggire da una città di perdenti per vincere” e diventare vecchi, con quella fuga che non è più tale. Ha dovuto recuperare il senso di parole che aveva cancellato e rifiutato, come famiglia, casa, padre, madre, figli, per non diventare anche lui “un bel cadavere giovane”. Ha dovuto anche recuperare parole odiate a lungo come il Padre Nostro, preghiera con cui concludeva tutti i suoi spettacoli.
Soprattutto ha riconosciuto che “follow that dream”, insegui un sogno a tutti i costi, non è necessariamente la chiave per avere una vita soddisfacente. D’altro canto lo aveva già preannunciato lui in tempi non sospetti: “Se un sogno non diventa realtà, è una maledizione”. E quanti di più sono i sogni infranti che quelli che diventano veri, nel corso di una esistenza? Sono la maggioranza e bisogna venire a patti con la realtà se vuoi vivere.
Springsteen è uno che ha accettato la realtà, ha smesso di fuggirne, non corre più. Lo ha dimostrato nel nuovo, bellissimo disco Western Stars, canzoni dal forte marchio autobiografico dove i protagonisti sono tutti dei perdenti arrivati ai loro ultimi anni, non hanno vinto un bel niente inseguendo il loro sogno, ma nonostante questo accettano serenamente la realtà. “Mi sveglio alla mattina, sono contento di indossare i miei stivali invece di essere svuotato nell’erba che sussurra”, canta. E ancora: “Ho due perni nella caviglia e una clavicola rotta, un pezzo di acciaio nella gamba (…) cercavo qualsiasi cosa qualunque tipo di droga per sollevarmi da questo terreno (..) Non preoccuparti per il domani, non pensare alle cicatrici, guida velocemente, e cadi con durezza”. E rialzati, ogni “maledetta domenica”. Rimanere in piedi, questo importa. Le cicatrici si impara ad indossarle, volendolo.
Il 25 ottobre arriverà nei cinema il film, che ha lo stesso titolo del disco, diretto insieme al suo amico e fedele collaboratore Tom Zimny, una via di mezzo tra il documentario e la performance in cui, in un fienile di casa sua, suona i pezzi di Western Stars, con immagini che mostrano la drammatica intensità dell’album.
Springsteen è tornato a vivere a pochi passi da quella città di perdenti dove è cresciuto, diviso tra la dolcezza di sua madre, Adele Zirilli, donna di origini italiane, e il padre Douglas Federick, un uomo affetto da una grave forma di depressione, con problemi di alcolismo, legato al figlio da un rapporto molto complesso, basato più sull’assenza e la durezza di un’impenetrabile distanza che sull’affetto. Da quell’uomo Springsteen ha cercato di fuggire, ma se lo è sempre ritrovato davanti. Fino a quando non ha imparato ad accettarlo per quel che era e così facendo ha imparato ad accettare se stesso.
Adesso che Springsteen entra ufficialmente nella terza età, cosa resta del suo mito? Ognuno dei suoi fan ha la sua risposta. Se c’è una cosa che il musicista del New Jersey ha sempre cercato di insegnare, anche se non in molti l’hanno recepito, è che la vita è una faccenda tua, personale, devi vedertela tu. Lui l’ha fatto, sempre. E se c’è una cosa, fra le tante che lo hanno contraddistinto come l’impegno civile, la sua autorità morale, la bellezza fottuta di tantissime sue canzoni, che rimane, è una frase: “Non è un peccato essere felici di essere vivi”. Vale più di mille “born to run” o “thunder road”. Perché è proprio quello che il mondo, nel suo cinico annichilire il desiderio di felicità di ogni uomo, cerca da sempre di fare: farci sentire in colpa perché desideriamo di essere felici. E così rinunciamo a vivere. Ma lo vedremo ancora, Bruce Springsteen, in piedi su quel pianoforte davanti a migliaia di facce, alzare la chitarra e il braccio “sputandoci in faccia” la realtà della vita, non a fuggirne. E a prendere sul serio la sua consegna: “non è un peccato desiderare essere felici di essere vivi”.