Bruce Springsteen ha chiuso il suo tour europeo con una serata formidabile a San Siro, in cui si è dimostrato l'uomo politico che manca nel mondo di oggi
Se ci fosse un politico o un intellettuale di sinistra, liberal o democratico come lo si voglia oggi chiamare, capace di comunicare lo stesso senso di empatia, di umanità, di vicinanza “alla comunità e ai valori condivisi” come ha detto lui, il mondo sarebbe un posto diverso. Ma si sa, per chi ha le redini del potere, destra o sinistra, sono solo canzonette…
È stato chiaro, per chiunque conosca anche solo un po’ d’inglese – e c’erano comunque i sottotitoli in italiano sui maxi schermi – e segua la drammatica deriva politica del nostro tempo, che il senso profondo di questo concerto, di questo tour dedicato “alla terra della speranza e dei sogni”, di questo Bruce Springsteen settantacinquenne (in forma fisica smagliante), si sia condensato nelle ultime due canzoni. Due brani che non sono suoi, ma che raccontano più di mille discorsi.
La prima, Chimes of Freedom, è di Bob Dylan, il cantautore che negli anni Sessanta ha rivoluzionato la canzone, trasformandola in un’arma poetica contro guerra, razzismo, disuguaglianze e autoritarismo. Lui l’ha chiamata “la più grande canzone sulla libertà che sia mai stata scritta”. È una lunga, potente visione in versi, un inno simbolico e struggente alla libertà e alla solidarietà verso gli emarginati. È la voce di chi non vuole dimenticare gli ultimi, e chiede che il dolore del mondo non venga ignorato.
L’altra, trasmessa mentre il pubblico lasciava lo stadio, è This Land Is Your Land di Woody Guthrie, padre fondatore della canzone di protesta. Pochi sanno che Guthrie scrisse anche un brano contro il padre di Donald Trump, affittuario spietato che sfrattava i poveri dalle sue case.
This Land Is Your Land è considerata l’inno alternativo d’America: un canto che rivendica la terra come diritto di tutti, senza muri, senza esclusioni, senza confini per chi cerca rifugio, dignità, futuro. Due scelte musicali che hanno messo il sigillo su ciò che Springsteen ha fatto, instancabile e lucido, durante quasi tutto il doppio concerto milanese.
Certo, il secondo concerto milanese di Bruce Springsteen e ultimo di questo tour, non poteva che essere una festa, e oltre alla politica è stata una festa, con tanto di folgorante chiusura a sorpresa con l’inno di John Fogerty, Rockin’ all over the world, che ci ha catapultati, per noi che allora c’eravamo, a quella notte di 40 anni fa esatti, quando nel giugno 1985 per la prima volta Bruce Springsteen apparve su un palcoscenico italiano, quello di San Siro, un luogo incantato che lui stesso ha riconosciuto ieri sera vedendo quel pubblico spettacolare, spettacolo nello spettacolo: “Only in San Siro, only in Milano!” ha detto commosso.
Springsteen non è un politico ideologico, ma come si è definito lui “un ambasciatore d’America”. Nel corso del concerto ha fatto diversi monologhi in cui ha chiamato le cose per nome. “Il criminale” che siede alla Casa Bianca, con parole coraggiose e profonde che, come dicevamo, nessuno che si oppone a Trump è capace di dire perché la perdita di valori condivisi è uguale oggi a destra come a sinistra.
Le sue parole hanno squarciato il cielo sopra San Siro: “Ho sempre cercato di essere un buon ambasciatore americano. Ho passato la vita a cantare i nostri successi, ma anche i nostri fallimenti, il nostro ideale civile, i nostri sogni. Ma adesso stanno accadendo cose che minacciano la vera natura della nostra democrazia, e sono troppo importanti per essere ignorate.
In America, casa mia, perseguitano chi esercita la libertà di parola. Questo sta succedendo ADESSO (…) Gli uomini più ricchi trovano soddisfazione nell’abbandonare i bambini più poveri del mondo alla malattia e alla morte. Questo sta succedendo ADESSO. (…) Provano piacere sadico nel dolore degli onesti lavoratori americani, stanno smantellando i diritti civili per cui abbiamo combattuto. (…) Definanziano le università che non si piegano alle loro ideologie, deportano cittadini americani in prigioni straniere, senza processo.
I rappresentanti eletti hanno fallito nel difendere il popolo da un presidente indegno e da un governo corrotto. (…) L’America di cui vi ho cantato per cinquant’anni è reale. Con tutti i suoi difetti, è un paese straordinario fatto di persone straordinarie. Sopravviveremo anche a questo”.
Spesso nel corso del concerto ha tirato fuori una parola inusuale in un concerto sia nella musica rock come nella politica, “preghiera”. Lo ha fatto prima della emozionante Long walk home (“Questa canzone è una preghiera per il mio paese”), ha chiesto di pregare dopo aver rilasciato una parola di consolazione: “Ho speranza, perché credo nella verità di ciò che disse lo scrittore americano James Baldwin: ‘In questo mondo non c’è tutta l’umanità che si vorrebbe… ma ce n’è abbastanza’. Preghiamo.” In questo senso My city of ruins è stata un coro gospel di 60mila voci che alzavano in alto la preghiera più impressionante mai sentita in uno stadio.
È stata festa grande, ma attraversata da un’ombra potente e rabbiosa. Come un pugno nel cuore, ha scatenato l’onda dei suoi brani più lancinanti e politici. Attenzione, perché con l’eccezione di un solo brano, Rainmaker, scritto pochi anni fa e chiaramente dedicato a Donald Trump, erano tutte canzoni scritte nell’arco di una carriera lunga molti decenni. Springsteen non è mai stato ideologico, non ha mai diviso il mondo in buoni e cattivi, le colpe sono di tutti, ma oggi stiamo arrivando a un punto di non ritorno. ADESSO.
Con Murder Incorporated ha evocato un’America dove la violenza è diventata sistema, industria, routine. Il crimine non è solo quello delle strade, ma quello legalizzato del potere, del denaro, dei media. La corruzione è ovunque. Il finale chitarristico è stato di una potenza inaudita, così come quello di Youngstown o di Rainmaker, strali di sangue che si innalzavano alte nel cielo degli ultimi e dei diseredati, facendo sentire le loro lacrime e le loro preghiere.
Con Death to My Hometown, furiosa condanna alla distruzione della classe operaia americana ha detto forte che non è solo una guerra con le armi, è una guerra fatta con le speculazioni, i mutui, i titoli tossici. I responsabili? I banchieri, i finanzieri, i nuovi predatori del capitalismo tecnologico.
Springsteen non fa nomi, ma il bersaglio è chiaro. La sua città natale è la nostra: abbandonata, depredata, svuotata di dignità.
Con Youngstown – da brano acustico a colpo di martello rock – ha dato voce a un operaio dimenticato, a milioni di lavoratori umiliati. È una ballata di rabbia e pietà, dove le fabbriche chiuse diventano cimiteri di vite e sogni, e l’America industriale un ricordo avvelenato. Parla di lavoro, di inganno, di memoria e di lutto.
Infine Rainmaker, dicevamo scritta per Donald Trump, pur senza citarlo: una canzone che smaschera i leader carismatici e bugiardi che incantano i disperati con promesse vuote. È la denuncia della manipolazione, del fanatismo, dell’inganno collettivo. Tutti pezzi suonati con la rabbia e la forza di un ventenne che non lascia prigionieri.
Springsteen non è mai stato un ingenuo fan del sogno americano. Già quarant’anni fa ne vedeva le crepe. The River, che ha risuonato anche in queste notti milanesi, lo gridava chiaro: “Is a dream a lie if it don’t come true, or is it something worse?”(“Un sogno è una bugia se non si avvera, o è qualcosa di peggio?”).
È forse la frase più disperata e potente della sua intera discografia. Parla della fine dell’innocenza, della crudeltà del reale, della promessa spezzata del mito americano. È una canzone che piange, ama, resiste. Questa è l’America ma Springsteen sa che ci si può redimere, si possono recuperare i valori di solidarietà e di empatia di una Costituzione che garantiva il diritto per tutti alla felicità. Sa che nel suo profondo cuore l’America ha atto una promessa, e per questo ha cantato The promise land.
E poi, come sempre, Springsteen ha anche dato gioia. Ha acceso l’anima del pubblico con i suoi classici immortali, per quei fan che forse non hanno colto appieno la tragedia del nostro presente, ma che hanno bisogno di speranza, luce, vita.
Si è ballato con Twist and Shout, si è cantato a squarciagola Dancing in the Dark, si è sognato con Hungry Heart, abbiamo pianto con la promessa sempre intatta di Badlands e con quella di Thunder Road. Ha mostrato il suo lato più romantico con l’irrinunciabile Because the Night, ha scatenato l’epopea di Born to Run.
Da quel palco, con la sua voce ruvida e infuocata, ci ha ricordato che la musica può ancora essere verità. Che anche oggi, in mezzo al buio, ci sono ancora campane che suonano per la libertà. Ognuno va a un concerto di Springsteen con il suo carico di ferite, di dolori e di sconfitte: come un predicatore il cantante incoraggia le 60mila persone a riprendere la propria vita in mano perché “alla fine di una dura giornata, c’è sempre un motivo in cui credere” ed è sempre il momento di “continuare a lottare fino a quando queste terre cattive non cominceranno a trattarci bene”.
La delicata e commovente House of thousand guitars, cantata da solo senza band, è stata una canzone di resistenza spirituale. Un inno dedicato a chi ha perso qualcuno, a chi cerca ancora un senso, a chi crede che la musica possa essere rifugio e rivoluzione insieme. È Springsteen che ci dice: “Anche se il mondo sembra crollare, qui dentro c’è ancora qualcosa in cui credere”: “Il clown criminale ha rubato il trono Ruba ciò che non potrà mai possedere Che la verità risuoni in ogni bar di paese Accenderemo la casa delle mille chitarre”.
Alla fine di questo doppio concerto milanese, quarant’anni dopo quel debutto leggendario in questo stesso stadio, ce ne andiamo senza sapere se mai ci sarà dato di rivivere qualcosa di simile per intensità, bellezza, verità e romanticismo.
Siamo tutti più vecchi, noi che c’eravamo allora – e lo è anche lui. Ma in questa sera sospesa nel tempo, il peso degli anni si è sciolto nella luce dei riflettori, nei cori senza fine, nella voce di un uomo che non ha mai smesso di crederci.
Nessuno ci aveva promesso che il rock’n’roll sarebbe durato per sempre. Eppure, per come l’abbiamo vissuto, respirato, amato, possiamo dirlo senza rimpianti: siamo stati la generazione più fortunata di sempre.
Abbiamo avuto la colonna sonora della nostra vita suonata dal vivo da chi quella vita l’ha raccontata con verità. E stasera, ancora una volta, Springsteen ci ha fatto sentire immortali.
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