“Mi sto scialando!”. Lo dice Dario Brunori sul palco del Palazzetto dello Sport a Roma, nella sera del 19 marzo. È un’espressione che rimanda alla leggerezza pirandelliana, quella di Luigi Pirandello ne Il fu Mattia Pascal, quando il protagonista, nella sua breve euforia di libertà, si esprime con un “Grazie a Dio mi sono scialato”. Quello “scialarsi”, in fondo, è il cuore pulsante di un pubblico che vuole abbandonare le angosce per un po’, come fa Brunori sulla scena, accendendo la platea con la sua ironia contagiosa.
La misura del suo successo mi viene data da due bagarini, intenti a scovare biglietti da comprare e rivendere a un prezzo più alto. Si avvicinano a me, pronti a offrire cifre esorbitanti per il mio pass. Resto ben volentieri con loro per un quarto d’ora, come un Pinocchio meno ingenuo con il gatto e la volpe. Voglio capire come funziona il loro losco commercio. Per la prima volta, non trovano nulla da rivendere: né biglietti extra, né monete d’oro da rubare a qualche malcapitato Pinocchio. Il pubblico, oggi, ha solo il desiderio d’ascoltare l’artista, vivere un’esperienza che si conquista con la passione per la vita e la musica.
Tra il pubblico, c’è una ragazza di Potenza, con il marito, che mi racconta di aver lasciato a casa i suoi quattro bambini dai nonni per esserci, a ogni costo. Nonostante la scossa di terremoto del giorno prima, non voleva perdere l’occasione di sentire Dario dal vivo. È questo, forse, che rende speciale un concerto: quella sensazione grata di dover esserci, di voler condividere un pezzo di vita con un artista che l’ha resa più sopportabile.
La band è sistemata su più livelli su un palco che evoca l’immagine del brano sanremese L’albero delle noci. Un albero che regala il suo frutto, il gheriglio, così come Brunori che nutre il suo pubblico con un suono solido e diretto, costruito grazie alla cura dell’ingegnere del suono e produttore Taketo Gohara, geniale arrangiatore e compositore giapponese.
E poi, il momento in cui una ragazza davanti a me inizia a piangere. Mi chiedo quale sia la storia che l’ha portata a quel concerto, quale significato personale e profondo le abbiano restituito le canzoni di Brunori Sas. Non lo saprò mai, ma in quelle lacrime c’è tutta una vita vissuta in salita. Insieme alla band, Brunori canta canzoni contro la paura del vivere, anche quando, nel bel mezzo del concerto, si lancia in un delirio rock, suonando la chitarra elettrica come Kirk Hammett, il leggendario chitarrista dei Metallica. La sua versatilità è un invito a vivere la vita con la stessa passione e libertà con cui la interpreta attraverso le canzoni.
Brunori, che sa passare dal comico al tragico senza mai confondere il pubblico, ci mostra ogni lato della sua personalità, invitandoci a fare altrettanto, a non temere di mostrarci per quello che siamo. Dopo quindici anni di carriera, lo vedo finalmente consapevole del suo ruolo di cantautore maturo, senza mai assumerne i toni pomposi e artificiosi. Si prende in giro, ironico, divertito dalla popolarità che lo circonda, pur consapevole della fugacità del successo.
Il suo obiettivo è semplice, ma fondamentale: offrire al pubblico non solo la musica, ma un’occasione che li faccia sentire parte attiva di un mondo reale in cui è bello starci, pur nelle difficoltà. E lo fa con una leggerezza che non è mai superficiale. Non separa mai il pubblico dalla realtà. Invita piuttosto a un coinvolgimento serio e profondo, stimolando una riflessione su tutto ciò che sperimentiamo, senza cedere allo sconforto.
Dario Brunori è l’artista che tutti possiamo riconoscere come uno di noi: un figlio, un amico e ora finalmente padre. In lui c’è una verità che ci appartiene, una concretezza che, al di là del palco, possiamo riconoscere nei gesti di ogni giorno. Il suo è un invito a “scialarsi” insieme, restando fedeli a noi stessi e agli affetti che ci circondano.
Il punto più alto dello spettacolo lo raggiunge eseguendo “Kurt Kobain”, un testo antropocentrico e coraggioso, indispensabile in un presente per nulla confortante. Alla fine del concerto, quando le luci si spengono, mi arriva una telefonata da un amico che ha visto lo spettacolo dal terzo anello “proletario” del palazzetto: “Mentre tutti ballavano, io sono rimasto lì, fermo, a sentire le sue parole. Non riesco a togliermele dalla testa. Sembra leggero, divertente, ma i suoi testi sono affilati, ti colpiscono, ti restano dentro”.
Restiamo in silenzio per un attimo, consapevoli che quel concerto, per quanto breve, ha lasciato una traccia profonda, una di quelle che rimangono e per sempre.
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