Il Consiglio direttivo della Bce ha ridotto ieri di un ulteriore quarto di punto percentuale, 25 punti base come si dice in termini tecnici, i tre tassi di interesse di riferimento con cui la Banca centrale indirizza la politica monetaria.
Pertanto il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali verso le banche ordinarie, che raggiunse durante il picco inflattivo il massimo del 4,50% a ottobre 2023, si riduce ora al 2,40%, quello sulle operazioni di rifinanziamento marginale al 2,65% e, infine, il tasso sui depositi presso la Bce, che da qualche tempo è considerato nei comunicati ufficiali come il tasso principale dei tre ai fini della politica monetaria, è ridotto al 2,25%.
Si tratta di una notizia attesa, di una decisione opportuna e necessaria che tuttavia non modifica il giudizio critico che abbiamo da diverso tempo dato, già dalla fase di crescita dei tassi tra la seconda metà del 2022 e la prima parte del 2023, sulla conduzione della politica monetaria da parte della Banca centrale. Esso è basato su due ordini di considerazioni:
1) Il primo riguarda la sensibilità della Bce ai temi dell’economia reale e delle prospettive di crescita economica. Sappiamo che le modalità con cui la Bce è stata costituita e il suo statuto l’hanno orientata alla difesa del valore della moneta unica, del suo potere d’acquisto, e dunque essa ha la missione principale, se non quasi esclusiva, di combattere l’inflazione. Tuttavia la riduzione dell’inflazione, quando perseguita con obiettivi estremi, dovrebbe richiedere di valutarne i costi in termini di minor crescita, se non addirittura di recessione, a essa conseguente.
Dalle dichiarazioni ufficiali di volta in volta pronunciate non sembra che questo sia stato fatto nel non breve periodo in cui l’economia europea appariva quasi ferma e ciò nonostante la politica monetaria restava restrittiva e i cali dei tassi estremamente prudenti.
2) Il secondo riguarda la capacità di persuasione della Bce, la sua moral suasion, la capacità di influire sulle aspettative d’inflazione con una comunicazione decisa sull’inflazione attesa e non, al contrario, incerta e attendista, come più volte abbiamo sentito e criticato. Dire che decideremo sui tassi in base a come andrà l’inflazione ma al momento non sappiamo come andrà, aspettiamo di vedere i dati, equivale a sprecare un ottimo strumento per gettare schiuma antincendio sulle aspettative.
La Banca centrale ha per obiettivo principale l’inflazione, dunque non può non avere un’idea della sua dinamica attesa. Invece continuiamo a leggere, come anche nell’ultimo comunicato stampa, affermazioni come le seguenti, che si possono sintetizzare in un “aspettiamo, vedremo e poi decideremo”: “L’orientamento di politica monetaria adeguato sarà definito seguendo un approccio guidato dai dati, in base al quale le decisioni vengono adottate di volta in volta a ogni riunione. In particolare, le decisioni del Consiglio direttivo sui tassi di interesse saranno basate sulla sua valutazione delle prospettive di inflazione, considerati i nuovi dati economici e finanziari, della dinamica dell’inflazione di fondo e dell’intensità della trasmissione della politica monetaria, senza vincolarsi a un particolare percorso dei tassi”.
Sempre nel comunicato stampa pubblicato ieri si legge: “Il processo disinflazionistico è ben avviato. L’andamento dell’inflazione ha continuato a rispecchiare le attese dei nostri esperti; a marzo sono diminuite sia l’inflazione complessiva sia quella di fondo. Anche l’inflazione dei servizi ha segnato una marcata attenuazione negli ultimi mesi. Le misure dell’inflazione di fondo suggeriscono perlopiù che l’inflazione si attesterà stabilmente intorno all’obiettivo del 2% a medio termine perseguito dal Consiglio direttivo”. Qui vi è una evidente sottostima dei risultati conseguiti in termini di riduzione dell’inflazione. Infatti:
1) Il processo disinflazionistico non solo è ben avviato, ma in realtà è già giunto da tempo alla sua meta, anche se non in maniera uniforme in tutti i Paesi che adottano l’euro. Esso può dunque dirsi quasi completato.
2) L’inflazione attuale è già nei dintorni dell’obiettivo del 2% dichiarato dalla Bce dato che quella effettiva, il 2,2% in marzo nell’euro area contro il 2,5% dell’intera Ue, non differisce in maniera significativa da tale valore. E già durante tutto il secondo semestre dello scorso anno il tendenziale si è attestato attorno a questo tasso tendenziale. Non ha dunque senso aspettare che anche il tasso medio annuale raggiunga il 2% per dichiarare raggiunto l’obiettivo, dato che esso richiede un confronto tra gli ultimi dodici mesi e i dodici precedenti anziché, come nel caso del tendenziale, solo tra l’ultimo e quello dello stesso mese dell’anno prima.
Anche nella restante parte dell’analisi la Bce sembra diffondere incertezza, aggiuntiva rispetto a quella che scaturisce spontaneamente dalle notizie economiche: “L’economia dell’area dell’euro ha acquisito una certa capacità di tenuta agli shock mondiali, ma le prospettive di espansione si sono deteriorate a causa delle crescenti tensioni commerciali. È probabile che la maggiore incertezza riduca la fiducia di famiglie e imprese e che la risposta avversa e volatile dei mercati alle tensioni commerciali determini un inasprimento delle condizioni di finanziamento. Tali fattori possono gravare ulteriormente sulle prospettive economiche per l’area dell’euro”.
Non sarebbe stato più chiaro sostenere una delle due tesi seguenti?
1) Ci aspettiamo che le crescenti tensioni commerciali a livello mondiale producano effetti reali sull’export europeo, riflettendosi negativamente sulla crescita economica dell’area. In tal caso non vi saranno pericoli di influssi negativi su prezzi e inflazione e la politica monetaria non sarà posta di fronte a esigenze restrittive.
2) Ci aspettiamo che le crescenti tensioni commerciali a livello mondiale non producano effetti reali rilevanti sulla crescita economica dell’area. Tuttavia le dinamiche attese della domanda non saranno tali da accelerare la crescita e dunque neppure in grado di generare effetti negativi di rilievo su prezzi e inflazione. Pertanto la politica monetaria non sarà posta di fronte a esigenze restrittive.
Oppure una loro sintesi, che si può scrivere così: le crescenti tensioni commerciali a livello mondiale potranno produrre o meno effetti restrittivi di rilievo sulla crescita. Non ne abbiamo idea, tuttavia esse, comprimendo la componente estera della domanda, rappresentano un antidoto all’inflazione, riguardo alla quale non ci aspettiamo alcuna tensione.
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