I San Antonio Spurs hanno vinto il quinto titolo NBA della loro storia, battendo 104-87 i Miami Heat in gara-5 (clicca qui per gli highilghts della partita). Questa è la notizia che arriva dall’AT&T Center. Poi, ci sono le notizie di contorno. Intanto una che fa piacere a tutta l’Italia: Marco Belinelli da San Giovanni in Persiceto è il primo azzurro a vincere il Larry O’Brien Trophy. E ancora: quinto anello per Gregg Popovich e Tim Duncan, conquistato in 15 stagioni. “Solo” il quarto per Tony Parker e Manu Ginobili, che questo gruppo lo hanno raggiunto più tardi. I Miami Heat perdono la seconda finale in quattro anni; vero che nel mezzo ne hanno vinte due e che quattro finali in fila non le faceva nessuno da una vita (i Boston Celtics tra il 1984 e il 1987, prima di loro i Los Angeles Lakers tra il 1982 e i 1985), ma quello che rimarrà sarà il fatto che una squadra costruita per dominare è stata a sua volta dominata in questa ultima serie, e forse ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto. Lasciamo ad altre sedi il racconto di quello che sarà nell’estate della Florida; di Chris Bosh e Dwyane Wade disposti a rimanere, ma di LeBron James che ha messo in vendita la sua casa perchè, queste le voci, sarebbe disturbato dalle barche che passano costantemente (sarà). E’ giusto invece celebrare un sistema che questa volta ha spezzato anche la maledizione dell’anno pari (gli altri anelli nel 1999, 2003, 2005 e 2007), che cambia gli uomini ma non i risultati, che gioca un basket offensivo meraviglioso ma sa bene che tutto nasce da dietro, da quando devi schierarti e impedire agli altri di fare canestro. Dopo i primi due episodi della serie saremmo potuti essere 2-0 Miami e due gare da giocare in Florida; è finita 4-1 per i neroargento, che hanno imposto due sconfitte consecutive agli Heat sul parquet dell’American Airlines Arena (non accadeva dal 2012) e che hanno vinto le ultime tre partite con uno scarto medio di 19 punti, letteralmente dominando. Anche ieri sera, quando Miami ha provato a mettere in campo tutto l’orgoglio rimasto ed è volata sul 22-6 approfittando della tensione Spurs. Durata poco: la rimonta si è concretizzata già nel secondo quarto, e poi è diventata marea. Tim Duncan non l’ha ancora detto, ma è molto probabile che si ritirerà; chiudendo una carriera pazzesca, e aspettando l’induzione nella Hall of Fame. Manu Ginobili chissà, potrebbe smettere. Continueranno gli altri: finchè ci sarà Popovich e finchè gli Spurs saranno questi, potranno continuare a vincere. Perchè a impressionare non sono tanto le star (comunque necessarie: senza non si vince) quanto i complementi. Una dirigenza capace di pescare dal nulla giocatori diventati fattori fondamentali, che vede ritirarsi o andare via Sean Elliott, Avery Johnson, l’ammiraglio David Robinson;
Rilancia con Bruce Bowen, Robert Horry, Stephen Jackson; e poi ti prende Thiago Splitter, Danny Green (scelta numero 46 dei Cleveland Cavaliers) e Patrick Mills, pesca di Portland con il numero 55, finito in Cina e capace di chiudere gara-5 con 17 punti. Resta l’annosa domanda: sono forti a prescindere, oppure il sistema San Antonio li ingloba e assorbe a tal punto? Chissà: intanto l’ultima menzione racchiude tutta la filosofia texana. L’MVP della serie va a Kawhi Leonard: 17.8 punti, 6.4 rimbalzi, 1.6 recuperi nella serie finale. E, cosa che non va a referto, una tremenda difesa su LeBron James (hai detto uno qualunque). L’avevano scelto gli Indiana Pacers ma R. C. Buford, uno cui dovrebbero dare il premio di executive of the year ad libitum, lo ha scambiato con George Hill: a nemmeno 23 anni questo ragazzo della California, che ha una storia tremenda alle spalle, si è preso il mondo. Ed è il naturale prolungamento di Tim Duncan: se possibile è ancora più taciturno di lui, tanto che l’addetto stampa degli Spurs deve convincerlo ogni volta a rilasciare interviste (e pare che al termine di gara-4 non ci sia riuscito). Perchè San Antonio è anche questo: un ambiente nel quale il divismo non sanno cosa sia, e il massimo che ti può arrivare da Tim Duncan è un occhio sgranato e fisso nel vuoto, che non capisci mai se sia contento o meno. Può piacere o non piacere; non diciamo che sia la perfezione. Intanto però vincono, e hanno ragione loro. Chapeau.
(Claudio Franceschini)