In settimana in magistrato Nino Di Matteo ha lasciato l’Anm perché fa solo politica. La sua è di fatto un’apertura di credito verso la riforma Nordio

La notizia che Nino Di Matteo abbia lasciato l’Associazione nazionale magistrati (ANM) e le parole che ha usato per motivare la sua scelta destano preoccupazione ed invitano ad una profonda riflessione coloro che amano la magistratura ed hanno a cuore la giustizia nel nostro Paese.

Affermare di non sentirsi “parte di un’associazione all’interno della quale continuano a trovare spazio logiche di appartenenza correntizia e di opportunità politica che non ho mai condiviso e che, in passato, anche da membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ho cercato in tutti i modi di contrastare” non è una dichiarazione così, da prendere a cuor leggero, soprattutto perché proviene da un magistrato, come Di Matteo, ancora fortemente impegnato in delicate attività giudiziarie, da sostituto della Procura nazionale antimafia.



Non conosciamo nel dettaglio quali possano essere le intime ragioni, sottese a questa scelta dolorosa, ma per la tempistica e le modalità, sicuramente si può ragionevolmente immaginare che siano legate alla discussione sulla riforma della giustizia ed alla conseguente separazione delle carriere.

Nei prossimi giorni, forse, sapremo sul punto anche qual è il pensiero del dottor Di Matteo al riguardo e capiremo un po’ di più.



Appare evidente, però, che la scelta di campo dell’ANM di costituire un comitato per il No alla riforma e la modalità individuata per protestare, affidandosi ad una forte campagna di comunicazione mediatica anche attraverso una sorta di influencer, abbiano pesato nella scelta del giudice di Palermo.

Il sindacato dei magistrati, nato, infatti, per portare avanti rivendicazioni di categoria, ha da tempo assunto un ruolo differente che, spesso sotto l’ombrello delle battaglie “a tutela della Costituzione”, accoglie ormai ogni tipo di istanza e sollecitazione. Si va dalle proteste per Gaza alle notti bianche della legalità, con frequenti invasioni di campo, difficilmente riconducibili alle esigenze della categoria.



Cesare Parodi, presidente dell’Anm (Ansa)

Le condizioni di lavoro, spesso difficili e complesse, dei magistrati, le istanze di un sistema giustizia che sembra ormai al collasso, e tutto ciò che può legittimamente riguardare la tutela delle condizioni professionali di categoria, sembrano, ormai, non essere più oggetto delle iniziative intraprese dall’ANM. O, comunque, non rappresentano più il suo interesse prevalente. E i danni di questa disattenzione si vedono tutti nella quotidianità di un lavoro sempre più difficile da portare avanti con dignità in molti, se non tutti i tribunali d’Italia.

Prova ne sia l’atteggiamento morbido e accondiscendente del sindacato delle toghe di fronte alla riforma Cartabia, che ha provocato e continua a provocare disagi operativi incredibili.

Porre rimedio oggi a queste disfunzioni, che poi sono in parte state ereditate dalla gestione Nordio, sembra oggettivamente impossibile e difficilmente motivato. Se non si protesta aspramente quando serve e si prova a rimediare tardivamente, non si rende un buon servizio. E non si riesce nemmeno a spiegare alla gente il motivo di un tale diverso atteggiamento, rischiando di amplificare il sospetto di una sottesa motivazione di carattere politico.

La credibilità di una struttura si pesa anche sulla base della sua linearità ed oggi appare comprensibile la reazione di chi, come il giudice Di Matteo, sceglie di allontanarsi, non riuscendo a capire quale sia la linea e quali siano le motivazioni sottese all’adozione di comportamenti e di atteggiamenti così diversi.

La difesa della Costituzione è interesse della magistratura associata e non, ma in generale di tutti i cittadini, ma va portata avanti con coerenza e determinazione sempre, a prescindere dal colore politico del governo di turno. Adottare misure e pesi differenti rischia di depotenziare questa azione e provoca la perdita di “pezzi importanti”, così come avvenuto in questo caso.

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