“Il punto centrale di questa vicenda è che nasce all’interno del centrodestra per esigenze diverse, ma è il segno di una crisi della società israeliana che ormai va avanti da oltre quindici anni”. Israele è dilaniato dalla contrapposizine sulla riforma della Giustizia voluta da Netanyahu, ma la vera questione che agita il Paese è la divisione che si è creata tra due modi distinti di intendere lo Stato.
Lo spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri. La minoranza ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone contro la riforma, ma tra chi si oppone c’è anche un componente del Likud, partito di destra, come il ministro della Difesa Gallant. La nuova Giustizia targata Netanyahu stabiliva il primato della politica su giudici e Corte Suprema, rendendoli arbitri del loro destino senza contrappesi istituzionali. Ora però il progetto è stato congelato: c’era, e forse c’è ancora, il pericolo di una guerra civile.
Quali sono i motivi che hanno portato Netanyahu a volere una riforma della giustizia così drastica?
La riforma della giustizia è andata di pari passo con una legge, potremmo dire una leggina, che la Knesset ha approvato nei giorni scorsi e che pone Netanyahu fuori dalla necessità e dall’obbligo di dimettersi nel caso in cui la magistratura dovesse formalmente incriminarlo, ed eventualmente condannarlo, per le inchieste che da anni lo seguono. In particolare quella che lo vede accusato di avere emarginato dei funzionari dello Stato, nel ministero che all’epoca guidava e che soprintendeva alle telecomunicazioni, per avvantaggiare un tycoon, un miliardario israeliano che poi lo ha appoggiato durante tutta la sua carriera. Un’inchiesta, come s’intuisce, molto grave, anche perché ci sono testimonianze di funzionari ministeriali contro Netanyahu.
Come si è arrivati a voler cambiare sostanzialmente il modo in cui viene amministrata la giustizia?
Nelle ultime elezioni Netanyahu ha chiesto ai partiti che hanno sostenuto il centrodestra e il Governo di approvare questa legge e in cambio ai partiti di destra, non tanto quelli religiosi quanto quelli laici guidati da Smotrich l’uno e Ben Gvir l’altro, ha concesso la riforma della giustizia, che sostanzialmente sottrae il Governo e la Knesset alla supervisione e al controllo della Suprema Corte, affidando di fatto all’Esecutivo la fonte primaria del potere in Israele. Allontanandosi da quell’equilibrio dei poteri che è nella tradizione delle democrazie occidentali.
Perché la destra estrema ha chiesto e ottenuto questa riforma?
Perché l’idea di questi partiti, che rappresentano pur sempre una minoranza all’interno della coalizione di centrodestra, è quella di cambiare profondamente la società israeliana, portando a compimento la teocratizzazione, l’affermazione dei principi religiosi, non solo nei confronti dei palestinesi, quindi cancellando la loro presenza, ma anche all’interno della società israeliana, che da sempre vive questa dualità tra ebraismo laico ed ebraismo religioso o neoreligioso.
È un do ut des tra di loro? Netanyahu non sarebbe più costretto a dimettersi e gli altri potrebbero continuare il processo di teocratizzazione?
È riduttivo pensare che tutto si risolva in una questione interna al centrodestra, perché quello che sta accadendo, con lo stupore di una parte dell’opinione pubblica internazionale, compresa quella europea, è una resa dei conti tra due concezioni della società israeliana, che in questi anni è andata sempre più vicino allo scontro. L’opinione pubblica internazionale è stata coltivata dall’immagine dei grandi scrittori israeliani come Amos Oz, Yehoshua e soprattutto David Grossman, che hanno rappresentato una bandiera dialogante e liberale della società israeliana, anche se negli ultimi dieci anni, anche quindici, questa parte è diventata sempre più minoranza, mentre la maggioranza degli israeliani, una maggioranza in certi casi risicata, in altri più ampia, si è spostata su posizioni politiche, ma anche culturali, di destra, abbandonando il centro.
Il fronte della protesta però comprende anche elementi di destra?
Quello che è molto interessante è che oggi in piazza ci sono anche appartenenti al tradizionale partito di destra Likud che si oppongono a Netanyahu e che si oppongono a questa alleanza mortale, in un certo senso, per il mondo laico israeliano. E questo è un elemento di novità.
Non è uno scontro destra-sinistra, ma tra l’ebraismo laico e quello confessionale?
Diciamo tra un ebraismo laico, che ha come riferimento lo Stato di Israele, e quello che ha come riferimento lo Stato ebraico. Ci sono due concezioni: lo Stato ebraico pone in grandissima difficoltà il rapporto tra ebrei e palestinesi, che sono il 20% della popolazione israeliana, ma pone anche in grave difficoltà il rapporto con un mondo laico che in questi anni, per esempio, ha vanamente chiesto il matrimonio civile. Mai Netanyahu e i partiti religiosi lo hanno concesso.
In Israele non c’è il matrimonio civile?
No. Gli israeliani che vogliono sposarsi civilmente vanno a Cipro oppure vengono in Italia. Un gran numero si sono sposati nel Comune di Siena.
La riforma della giustizia, insomma, non è il vero problema.
Siamo di fronte a un problema che va oltre la riforma della giustizia. Messa in freezer l’applicazione della legge di riforma bisognerà vedere se Netanyahu avrà la forza politica di rimanere o meno alla guida del Governo o se invece il ministro della Difesa non diventerà l’alter ego politico dei futuri assetti governativi israeliani. Tutto difficilmente si bloccherà con il congelamento della riforma.
Dalle parole di Netanyahu, con le quali ha invitato ad evitare la violenza richiamando tutti gli israeliani al fatto di essere fratelli, traspare una seria preoccupazione: il rischio che questa contrapposizione porti addirittura a una guerra civile, a una contrapposizione fisica. Un rischio reale?
Questa contrapposizione fisica si è sfiorata in queste ore a Gerusalemme, perché sono arrivati fin dalla mattina di lunedì migliaia e migliaia di oppositori a Netanyahu e alla riforma della giustizia, ma per la prima volta uno dei leader della destra, Smotrich, aveva fatto dichiarazioni invitando a una contromanifestazione sempre a Gerusalemme. Poteva, può e potrà significare che in strada arrivino anche i coloni, dalla Cisgiordania e dalla periferia di Gerusalemme. Molti coloni normalmente portano con sé le armi per difesa personale. Sarebbe bastato che uno di questi alzasse il proprio fucile contro gli oppositori per passare dalla protesta alla guerra civile. Oggi la contrapposizione fisica sta rischiando di concretizzarsi nella realtà, nello scontro tra oppositori di Netanyahu e sostenitori di Smotrich, forse il leader più forte della nuova destra.
I segnali di una radicalizzazione della situazione sono tanti.
Si arriva a dei paradossi incredibili. In questi giorni sui giornali israeliani c’era la foto che il ministero dell’Interno, guidato da Ben Gvir, ha fatto mettere nei propri uffici. Una foto di Gerusalemme da cui è stata cancellata l’immagine della Cupola della Roccia. Un atto che va ben oltre la provocazione fotografica. È un messaggio politico. Se viene affissa una foto del genere in un ufficio statale è chiaro che il rischio di un conflitto con i palestinesi, e oggi anche di un conflitto all’interno di Israele, non è più un falso spauracchio.
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