Sull’ultima relazione del Copasir al Parlamento, riguardante la situazione geopolitica in Africa e sui suoi riflessi sulla sicurezza nazionale, si è scritto forse a sproposito. Non ci sono 700mila migranti “pronti a salpare”, ma a diventare un’arma nelle mani delle milizie, sì. E c’è sicuramente un interesse nazionale da difendere, raddrizzando l’ago di una bussola che dal 2011 in poi è sembrato sbandare troppo spesso. Bene ha fatto l’Italia a restituire Almasri, spiega al Sussidiario Michela Mercuri, docente di cultura, storia e società dei Paesi musulmani nell’Università di Padova. “Non dobbiamo coprirci gli occhi. Le milizie sono i veri attori che comandano davvero nell’ovest libico e controllano il territorio puntellando un governo debole. Ogni progetto, anche quelli previsti dal Piano Mattei, è vincolato a questa situazione”.
La relazione del Copasir arriva quando il caso Almasri è ancora caldo. Il rapporto parla di 700mila migranti irregolari in territorio libico e punta i fari sulla presenza russa in Cirenaica. Dov’è la novità?
Il Copasir ci mette davanti a una realtà che dovrebbe esserci nota, ma che normalmente facciamo volentieri finta di non vedere. Anche il caso Almasri lo dimostra.
Partiamo dagli immigrati.
il Copasir ci dice che i migranti presenti in Libia non sono solo le 3mila persone racchiuse nei circa 25 centri di detenzione sulla costa. L’interno della Libia è pieno di immigrati che vengono venduti o scambiati in una rete fittissima di organizzazioni criminali che parte dal Sahel e arriva fino a Tripolitania e Cirenaica. Vengono impiegati nei pozzi petroliferi e in ogni ramificazione dell’economia “informale” di un Paese diviso. Come si può immaginare, è un business enorme.
Le torture?
Di solito avvengono da parte di chi controlla i centri di detenzione per avere più soldi dai nuclei familiari di provenienza.
Sono tutti destinati ad imbarcarsi?
No, ma rappresentano un’arma ideale di pressione nei confronti dell’Italia non appena sorge uno screzio tra il nostro governo e una milizia che li controlla. Un’arma di grande efficacia.
Il Copasir lancia anche l’allarme sulla presenza russa in Cirenaica. Perché?
Perché la Cirenaica sta diventando un hub logistico russo. Il governo di Al Jawlani non ha più rinnovato l’accordo sulle basi di Tartus e Latakia, di conseguenza Mosca punta al porto di Bengasi per le navi e ad altre basi nell’interno per la sua aeronautica. In più la Russia sta aumentando il numero degli uomini.
Il caso Almasri ci ha fatto toccare con mano il potere della Rada, la potente milizia consolidata in Tripolitania, proprio dove l’Italia ha interessi più diretti. Perché i maggiori problemi sono qui?
L’Italia ha siglato con Haftar in Cirenaica accordi che si stanno dimostrando più stabili ed efficaci, in Tripolitania invece il governo è più debole, non controlla le milizie ed è spesso sotto ricatto.
Ad esempio?
Dbeibah per restare al potere è costretto ad offrire ai miliziani ruoli apicali, come quelli di capo milizia o di capo della guardia costiera. Le milizie non governano solo su migranti e petrolio, ma sugli stessi libici. Quella del governo di Tripoli è una debolezza che risale ad Al Sarraj. Fin dal suo governo le milizie hanno trovato campo pressoché libero e si sono rafforzate sotto gli occhi impotenti – o bendati – della comunità internazionale.
Fino a dove arriva il potere di queste milizie?
Sicuramente oltre i confini della Libia. Hanno rafforzato legami con milizie del Sahel e del Niger, con le quali l’Italia aveva stretto accordi nel 2017, poi saltati con il golpe dell’estate 2023.
Lei come giudica questa situazione sotto il profilo politico, anche per quanto riguarda la vicenda Almasri?
Dico che non dobbiamo coprirci gli occhi. Le milizie sono i veri attori che comandano davvero nell’ovest libico e sono più forti di prima. Questo stato di cose non può piacere, ma è stato voluto da noi e dalla nostra indifferenza.
Sta parlando del 2011, dell’eliminazione di Gheddafi voluta dalla Francia e operata dalla Nato?
Certamente, ma non solo. Sarebbe un errore pensare che l’interlocuzione con le milizie sia una prerogativa dell’Italia. Ancor prima di eliminare Gheddafi – ma quando la guerra della Nato era già cominciata – Sarkozy ricevette in gran segreto il generale del “Consiglio nazionale di transizione”, un organo opaco diventato in brevissimo tempo il principale interlocutore anti-Gheddafi, composto da miliziani e futuri miliziani, e accolse un personaggio oscuro come Abdul Fatah Younis per discutere delle future commesse energetiche. Stando alle mail di Hillary Clinton desecretate dal Dipartimento di Stato americano, molti ribelli anti-gheddafiani prima del 2011 facevano la spola con la Francia, dove si addestravano. Dettagli mai pubblicizzati, a differenza di quanto accaduto in Italia con il caso Almasri. Sono anni che in Libia si fanno accordi con governi non riconosciuti. Da anni la Francia vende armi ad Haftar. Nel 2019, quando Haftar cercò di mettere i piedi in Tripolitania, la Turchia inviò armi e jihadisti a difesa del governo dell’ovest, dove Ankara ha grandi interessi, a cominciare dal porto di Misurata. Della Russia abbiamo detto.
Si chiama realpolitik?
Sì, e purtroppo rimane la via maestra. Percorsa da tutti. E anche l’Italia fa bene a farlo, se vuole tutelare l’interesse nazionale. Ovviamente c’è modo e modo di farlo.
Che cosa intende?
Non sappiamo se dietro l’attentato di Fiumicino del 17 dicembre 1973 ci fosse solo la mano palestinese o anche quella di Gheddafi. Però nell’aprile 1986 Craxi avvertì Gheddafi dell’imminente raid americano che aveva l’obiettivo di eliminarlo e gli salvò la vita. Craxi non amava particolarmente Gheddafi, ma difese un interesse di Stato. Nessun partito dell’opposizione ebbe da ridire. Nel 2020 la francese Nexa Technologies ha venduto armi ad Haftar per 3 miliardi, ma la cosa più interessante è che i magistrati francesi hanno protetto il deal di Parigi ostacolando ogni indagine.
Il Piano Mattei?
È il tentativo di attuare un approccio più sinergico, dal punto di vista italiano ed anche europeo, puntando, oltre che sul controllo dei flussi migratori, anche sugli investimenti. E questo va bene. Il problema è: se l’Italia chiama, quale Libia risponde?
Forse Dbeibah, più probabilmente il capo della Rada.
La Rada controlla l’aeroporto di Mitiga, fondamentale per molte imprese italiane, europee ed internazionali, che già operano o che vorrebbero entrare nell’economia libica. Controlla le aree dove sono presenti molti giacimenti petroliferi Eni e gli impianti che collegano la costa dell’ovest libico a Gela (GreenStream), e ne garantisce la sicurezza. Se vogliamo continuare nell’attività estrattiva e fare business in Libia è indispensabile dialogare con la Rada, perché la Rada ha il controllo del territorio. Tra l’altro, proprio la Rada ebbe un ruolo essenziale nella liberazione dei tecnici Bruno Cacace e Danilo Calonego, rapiti nel 2016 tra Libia e Algeria da gruppi jihadisti. C’era il governo Renzi.
Insomma siamo condizionati dallo status quo.
È inevitabile. Ogni progetto, anche quelli previsti dal Piano Mattei, è vincolato a questa situazione. Almeno finché la comunità internazionale non riprenderà seriamente in mano il dossier Libia.
Ci arriviamo. Cosa può dirci del personaggio Almasri?
Si è scritto ampiamente del suo passaporto caraibico e del visto decennale di ingresso negli USA, meno si è detto della sua cittadinanza e patente turca. Almasri si presentava come general manager di compagnie private turche. Dunque i suoi rapporti privilegiati con Ankara potrebbero valere di più della sua posizione nelle gerarchia della Rada. Dal 2019 la Turchia ha una forte influenza sulla Tripolitania e possiede altre basi all’interno della Libia. Controlla i flussi migratori e i flussi petroliferi. Sono tutti elementi che dovrebbero farci mettere meglio a fuoco il ruolo di Almasri.
Ha fatto bene il governo italiano a riportarlo indietro?
È stata una scelta razionale, che qualunque governo di qualunque Paese e colore politico, attento all’interesse nazionale, avrebbe fatto. Semmai avremmo dovuto sigillare subito l’operazione con il segreto di Stato. Era inevitabile che le opposizioni insorgessero, costringendo il governo Meloni a rincorrere gli eventi.
Come mai verso la Libia non abbiamo mai tenuto diritto l’ago della bussola?
Siamo stati puntualmente strattonati da altri attori e da eventi internazionali contingenti. Nel 2019 non abbiamo sostenuto Sarraj e la Turchia ne ha approfittato. Adesso dovrebbero esserci le condizioni, anche l’Ue è più attenta al tema migratorio, come nel caso dell’hub in Albania e di quelli che altri Stati vorrebbero. Questo non esclude che per perseguire il nostro interesse nazionale la corsa ad ostacoli continuerà.
Prima ha parlato di attenzione necessaria della comunità internazionale per la Libia. È lo stesso Copasir a dire che servirebbe una missione Nato in Africa.
In teoria una missione Nato in Africa avrebbe senso, per rilanciare il ruolo dell’Occidente dopo la fine della “Françafrique” e fronteggiare l’invadenza di Cina e Russia. Ma di quale Nato parliamo? Di quella che nel 2011 ha eliminato Gheddafi gettando la Libia e l’intero Nordafrica nel caos? Dunque serve una Nato rivista.
Quale tipo di Alleanza servirebbe all’Italia, così esposta sul “fianco Sud”?
Sicuramente una Nato di concezione non solo securitaria ma orientata alla cooperazione. Ma ci sono altri problemi aperti. Quale visione ha Trump della Nato, oltre la percentuale di spesa sul Pil? Cosa pensa dell’Africa? Ancora non lo sappiamo. Fino a che tutti questi elementi non saranno chiari, parlare di missione Nato in Africa e Libia è prematuro.
Secondo alcuni organi di stampa Giovanni Caravelli, capo dell’Aise, il 28 gennaio si è recato a Tripoli con i nomi di altri ricercati libici per evitarne la cattura. Il suo commento?
Mi parrebbe una mossa dettata dalla responsabilità. Dimostrerebbe che l’Italia vuole continuare a monitorare quel che accade in Libia e le sue dinamiche interne.
(Federico Ferraù)
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