La California ha avviato un’azione legale contro l’amministrazione del presidente Donald Trump per il dispiegamento di 2mila soldati della Guardia nazionale a Los Angeles, deciso senza il consenso del governatore democratico Gavin Newsom. Una mossa che ha aggravato ulteriormente le tensioni già esistenti tra lo Stato e la Casa Bianca, in un momento in cui il sud della California è attraversato da proteste sempre più accese contro l’ICE, l’agenzia federale per l’immigrazione.
L’intervento federale è stato annunciato sabato sera, dopo episodi di violenza che avrebbero coinvolto agenti dell’ICE durante retate in città. Secondo l’amministrazione, la situazione avrebbe richiesto un’azione immediata, mentre le autorità statali, a cominciare da Newsom, hanno sostenuto che le forze locali erano perfettamente in grado di gestire i disordini.
Al centro dello scontro c’è anche la denuncia, da parte di attivisti, della presunta detenzione di migranti nei sotterranei di un edificio federale di Los Angeles. L’ICE ha smentito categoricamente queste accuse, definendole infondate e strumentali.
Lo scontro istituzionale si inserisce nel più ampio conflitto tra le cosiddette “giurisdizioni santuario”, che si oppongono alle politiche migratorie più dure, e un’amministrazione che ha fatto della repressione dell’immigrazione irregolare uno dei suoi cavalli di battaglia.
Trump ha già utilizzato ordini esecutivi e, in alcuni casi, si è appellato all’antico Alien Enemies Act del 1798 per giustificare l’estensione dei poteri di deportazione. In questo contesto, la decisione di inviare truppe federali senza consultare il governatore rappresenta un precedente unico: è la prima volta, infatti, dal 1965 che un presidente ignora apertamente il parere di un governatore in merito al dispiegamento della Guardia nazionale.
Le manifestazioni, esplose venerdì nel Fashion District di Los Angeles, si sono rapidamente estese ad altri punti della città. Sabato, migliaia di persone si sono radunate con proteste proseguite fino a tarda domenica. Le tensioni si sono trasformate in scontri violenti. A San Francisco, due agenti sono rimasti feriti. La polizia ha risposto con arresti di massa: 148 adulti e 6 minorenni sono finiti in manette. A Los Angeles, nella stessa serata, gli arresti sono stati 42.
Il clima è esplosivo. Los Angeles brucia, e non solo in senso figurato. Dopo gli incendi boschivi che avevano devastato la regione a inizio anno, ora sono le fiamme appiccate dai manifestanti a infiammare le strade. Auto date alle fiamme, assalti alle forze dell’ordine, scene di guerriglia urbana: dalle immagini che arrivano dalla città emergono uomini incappucciati che lanciano pietre dai cavalcavia sulle auto in transito, motociclisti che sfrecciano tra le auto in fiamme, un giovane a torso nudo che sventola una bandiera messicana sopra una Tesla bruciata.
In questo contesto, la sinistra finisce per offrire involontariamente a Trump una narrazione ideale per rafforzare la propria agenda migratoria. Le immagini di caos urbano, accostate a simboli e bandiere straniere, evocano in molti americani l’idea di una minaccia concreta, rafforzando timori già diffusi. Quelle che potevano sembrare esagerazioni retoriche da parte di Trump – come i riferimenti a una “invasione” migratoria incontrollata – ora trovano nella realtà visiva degli scontri una conferma per molti elettori.
La risposta del presidente, tuttavia, non può essere dettata solo dall’impulso. Se l’obiettivo è mantenere l’ordine, è fondamentale evitare che l’intervento si trasformi in un boomerang mediatico. In un contesto dominato dal potere delle immagini, basta un eccesso – una repressione troppo dura, un episodio di violenza, una morte – per capovolgere l’opinione pubblica e danneggiare l’intera strategia. Trump, che ha più volte tuonato su X “Law and Order”, sa che oggi la legge e l’ordine devono essere percepiti non solo come giusti, ma anche come legittimi e misurati.
Per questo, diversi osservatori suggeriscono un approccio più strategico: evitare un dispiegamento eccessivo e attendere che sia Newsom stesso a chiedere aiuto. Se i disordini dovessero continuare, l’opinione pubblica potrebbe spingere il governatore a cambiare rotta, costringendolo ad assumersi la responsabilità dell’uso della forza.
Un altro elemento chiave potrebbe essere il coinvolgimento diretto delle autorità locali, portando i leader democratici della California a condividere oneri e rischi dell’intervento. In questo modo, Trump eviterebbe di restare l’unico attore politico visibile sul campo.
Sul piano operativo, la strategia federale potrebbe seguire un doppio binario: presenza visibile, ma contenuta, della Guardia nazionale e azioni mirate in grado di colpire i leader della protesta senza spettacolarizzazioni. In passato, durante le rivolte a Portland, le forze federali hanno agito in modo discreto, utilizzando veicoli non contrassegnati per arrestare gli agitatori e smantellare le reti di finanziamento. Un approccio simile potrebbe oggi contribuire a disinnescare le proteste senza alimentare la narrazione di uno Stato autoritario.
Trump ha bisogno di ristabilire l’ordine, ma non può permettersi di perdere la battaglia dell’opinione pubblica. Il vero obiettivo resta quello di rafforzare la propria agenda migratoria, e il caos di Los Angeles rappresenta il primo grande banco di prova. In questa sfida, più che la forza, sarà la gestione politica a fare la differenza.
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