Pronto soccorso spesso subissati di richieste. Per svuotarli occorre educare le persone dal punto di vista sanitario e organizzare le risposte ai bisogni
Secondo il ministero della Salute e AGENAS (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) il Pronto Soccorso (PS) di un ospedale è la struttura dedicata esclusivamente al trattamento delle emergenze e delle urgenze, intendendo con ciò quelle patologie o condizioni che hanno bisogno di un intervento immediato di tipo diagnostico o di tipo terapeutico.
E si aggiunge che il PS dovrebbe essere utilizzato in caso di problemi acuti urgenti che non sono risolvibili dal medico di medicina generale (MMG) o dal pediatra di libera scelta (PLS) oppure dalla (ex) guardia medica (cioè i medici della continuità assistenziale).
A completamento della definizione si fa anche un elenco di situazioni il verificarsi delle quali non richiede di andare al pronto soccorso, e tra le tante se ne citano esplicitamente alcune: evitare le liste di attesa per prestazioni non urgenti, richiedere ricette o certificati, effettuare controlli che non sono urgenti, evitare di ricorrere al proprio medico curante (MMG/PLS), chiedere prestazioni che vengono normalmente erogate negli ambulatori, evitare il pagamento del ticket.
Fin qui le definizioni e la teoria, ma cosa succede in pratica?
A parte gli aneddoti e le esperienze individuali (anche quelle violente che arrivano persino agli organi di informazione) che spesso raccontano di un’altra realtà, ma non fanno statistica e non aiutano la programmazione e l’organizzazione del servizio, e lasciando come caso a parte il problema della pandemia da Sars-CoV-2 (soprattutto nelle prime fasi) che ha portato una totale rivoluzione nelle modalità di accesso alle strutture ospedaliere (ed in particolare proprio ai PS), delle attività svolte in concreto da queste strutture si sa molto poco, ma che il contesto sia problematico è evidente dallo scarso interesse e dalla poca attrazione che questo servizio gode, ad esempio, presso il personale sanitario (medici e infermieri).
In realtà un sistema informativo, ed anche abbastanza ricco di notizie, sulle attività dei PS è attivo a livello nazionale da 10-15 anni, ma di esso non si hanno evidenze se non le scarsissime informazioni che si trovano pubblicate sul portale statistico di AGENAS e che si limitano a rappresentare geograficamente dove sono localizzati i PS, a dare conto a livello regionale della quota di codici bianchi (pazienti non urgenti) e di codici verdi (paziente poco critico con assenza di rischi evolutivi e con prestazioni che possono essere differite) rispetto al totale degli accessi (e che per differenza dal totale permettono di calcolare l’insieme dei codici gialli e rossi, cioè i pazienti mediamente o molto critici), e a documentare sempre a livello regionale l’esito dell’accesso.
È molto poco quanto a contenuto informativo (nemmeno età e sesso dei pazienti sono documentati, non parliamo poi delle prestazioni erogate: ignote), ma anche da tale scarso materiale si può raccogliere qualche notizia che permetta almeno di accennare ad alcuni ragionamenti.
E per farlo, visto che sulla classificazione-colore che viene assegnata ad ogni singolo paziente che accede al PS incide la politica dei ticket stabilita dalle diverse regioni (clamoroso il caso del Veneto, dove al 58% degli accessi viene attribuito un codice bianco, che porta al pagamento di un ticket, mentre per tutte le altre regioni i codici bianchi sono inferiori al 20%), conviene raggruppare insieme i codici bianchi e verdi da una parte e quelli gialli e rossi dall’altra, separando così chi paga il ticket e per i quali l’accesso al PS è tendenzialmente inappropriato (i primi) dai secondi (gialli-rossi) dove invece l’accesso è tendenzialmente appropriato e non si paga il ticket.
Guardando i dati la prima cosa che salta all’occhio è la straordinaria quantità di accessi che possiamo considerare inappropriati: si va dal 95% della Valle d’Aosta, 85% della Lombardia e 83% dell’Umbria, al 44% della Sardegna, 42% del Lazio e solo 23% della Toscana. Solo in 4 regioni la quota di accessi bianchi e verdi è inferiore al 50% degli accessi totali, mentre in tutte le altre regioni più del 50% degli accessi in PS (con punte superiori al 80% in 4 regioni) sarebbero riferibili ad attività non o poco critiche, cioè ad attività che non richiederebbero un passaggio dal pronto soccorso.
La seconda osservazione non può che essere dedicata all’estrema variabilità che caratterizza le singole regioni: cosa può giustificare una differenza come quella rilevata tra grandi regioni come la Lombardia (85%) ed il Veneto (74%) da una parte e la Toscana (23%) ed il Lazio (42%) dall’altra? Forse le politiche sul ticket? O forse l’organizzazione territoriale? O forse anche il modo con cui viene attuato il triage che assegna i codici colore? O chissà quale altro fattore. Vero è che secondo i dati attuali, il PS è pieno di accessi e di attività che non si dovrebbero svolgere in quelle strutture perché non sono attività urgenti.
È facile pensare che il sovraffollamento dei PS derivi da una assenza di filtro da parte dell’assistenza territoriale, ed in particolare di MMG e PLS, ma qualche informazione disponibile attraverso alcune regioni che hanno fatto degli approfondimenti suggerisce un supplemento di indagine e valutazione.
Ad esempio, se l’affollamento dei PS trovasse la sua principale ragione nella mancanza di filtro da parte della medicina di base dovremmo avere delle punte di accesso il sabato e la domenica, quando cioè MMG e PLS non sono attivi, mentre i dati dicono che il momento di massimo affollamento si verifica il lunedì.
Allo stesso modo sarebbe interessante mettere a confronto gli accessi diurni (ore 8-20) con quelli notturni; gli accessi nei piccoli ospedali rispetto a quelli nelle grandi strutture; gli accessi dei bambini rispetto a quelli degli adulti; e così via; alla ricerca delle motivazioni per cui i nostri compaesani si recano con tanta facilità nei PS anziché in altre strutture più consone e adeguate per rispondere al bisogno non urgente.
Il sovraffollamento improprio dei PS è un segnale sicuro delle difficoltà che ha il territorio ad intercettare taluni bisogni sanitari (e la relativa domanda di prestazioni), ed in questa direzione le proposte formulate attraverso il PNRR potrebbero contribuire a limitare un po’ gli accessi impropri effettuati in PS, ma per il momento le nuove strutture territoriali, al di là degli edifici inaugurati, non sembrano caratterizzate da rilevante attività sanitaria e non partecipano quindi alla azione di filtro che i PS si attendono da loro.
Allo stesso modo, stupisce la straordinaria differenza di comportamento delle diverse regioni anche in tema di accesso ai PS: questo fenomeno dell’eterogeneità regionale però sta diventando una costante di tutte le analisi quantitative che vengono fatte su qualsiasi fenomeno sanitario, a dimostrazione che l’autonomia differenziata, al di là dei progetti di legge in corso e delle polemiche tra favorevoli e contrari, che piaccia o no in sanità è nei fatti già adesso e non nelle norme che verranno (o non verranno) approvate.
Da ultimo un pensiero deve andare però anche ai singoli cittadini, perché in fin dei conti sono loro che decidono di andare al PS anche quando non ce n’è bisogno. Certo a spingerli saranno pure i tanti difetti e problemi che affliggono il nostro servizio sanitario, ma è indubbio che si impone come necessaria un’attività di educazione sanitaria che oggi manca totalmente: l’empowerment del cittadino non può essere lasciato solo all’autoistruzione ed all’accesso agli strumenti che internet e il mondo social rendono disponibili.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.