I captcha ci fanno lavorare gratis per il web, della cui fabbrica siamo tutti operai inconsapevoli, contribuendo con i nostri click a originare gli algoritmi di marketing e non solo. Lo ha rivelato Antonio Casilli, sociologo e professore al Paris Institute of Technology (Gli schiavi del clic, Feltrinelli 2020), in un’intervista concessa al quotidiano “La Stampa”: “Se dobbiamo pensare al lavoro come un’attività che produce ricchezza, indubbiamente noi svolgiamo un’attività gratuita per le grandi società di raccolta dei dati, come Google o Amazon”.
Per esemplificare il concetto, Casilli si è servito di un’esperienza quotidiana, ovvero il questionario a cui spesso gli utenti devono rispondere per poter accedere a determinate informazioni, accompagnato dalla scritta “non sono un robot”: in genere ci sono delle fotografie e la domanda di cliccare su tutte le istantanee in cui è immortalato un semaforo o un segnale stradale. “Questo ha una spiegazione: quelle informazioni servono a Waymo, la società di Google che sta studiando l’intelligenza artificiale per l’auto senza guidatore. I veicoli devono imparare a riconoscere le indicazioni per potersi muovere nel traffico. C’è un solo modo per insegnarglielo: creare un’intelligenza artificiale che guardi miliardi di fotografie e possa cominciare a riconoscere semafori, strisce pedonali, marciapiedi. Questo lavoro lo facciamo noi. E lo facciamo gratis”.
CASILLI: “IL WEB NON È DEMOCRATICO”
Casilli a “La Stampa” ha rivelato poi che il primo passo da compiere è quello di renderci conto che, con i nostri click, contribuiamo a creare immense banche dati che hanno un valore. Questi sono dati sensibili, perché ci profilano e aiutano a orientare il mercato nei nostri confronti. Esistono sistemi automatici che mettono in ordine tutte queste informazioni, “ma ci sono anche centinaia di migliaia, forse milioni di individui pagati una miseria per farlo. Persone reclutate in Asia e in Africa che vengono pagate a cottimo: un centesimo a clic per sistemare tutti i dati sensibili del web”.
Ecco quindi che la sbandierata rivoluzione digitale non è poi così democratica come si potesse immaginare: “In realtà il web aumenta le differenze tra poveri e ricchi. Noi nell’Occidente abbiamo il 5G e la fibra. Nei Paesi poveri Facebook propone Freebasic, un accesso limitato a Internet con un solo motore di ricerca. Non sempre quella promessa di democratizzazione è stata mantenuta”.