Carlo Legrottaglie, brigadiere capo dei Carabinieri, aveva 59 anni ed è stato ammazzato da un colpo d’arma da fuoco, mentre faceva il suo dovere.
È morto un servitore dello Stato. Un’altra volta, come Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli, gli agenti delle scorte dei giudici Falcone e Borsellino. Come Pasquale Apicella, Mario Cerciello Rega, Rosario Livatino, Giuseppe Salvia e le altre centinaia di vittime del dovere che, per citarle tutte, ci vorrebbe un libro intero.
Non possiamo più tacere, non dobbiamo più tollerare ed accettare l’inaccettabile.
La mafia è una cosa molto seria e, come diceva Giovanni Falcone, maledettamente complessa. Non è altro da noi, come si tende, invece, superficialmente a sostenere, ma ci assomiglia.
Oggi è tornata, purtroppo.
O, forse, non se ne è mai andata ed ha approfittato – come è abituata ed abile a fare – del nostro atteggiamento di sottovalutazione del fenomeno, a tratti di indifferenza, anche istituzionale.
Quando sono andato via dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, dopo oltre dieci anni – come si dice – di onorato lavoro, si è iniziato a sostenere che la camorra fosse finita.
Mi sarebbe piaciuto, ed avrei anche potuto godere e celebrare questo successo che era stato anche mio. Ma sono sempre stato concreto e realista e non ci ho mai creduto. Ho assistito per anni ad atteggiamenti di complice indifferenza, colorati, talvolta, da quella fastidiosa supponenza che solo una robusta ignoranza sa rendere così insopportabile.
Ho ascoltato ministri dire no al bravo collega antimafia Nino Di Matteo come capo del DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) perché, a quanto sembrava, i detenuti non l’avrebbero presa bene.
Ho visto rifiutare la proposta di Nicola Gratteri, forse allo stato il più esperto conoscitore del fenomeno mafioso, prima come ministro e poi come capo della Procura Nazionale Antimafia.
E tali atteggiamenti sono continuati per anni, con governi diversi nel disinteresse quasi totale.
Ho visto scarcerare centinaia di mafiosi nella prima emergenza Covid, perché nessuno aveva pensato alle contromisure da adottare al momento giusto.
Oggi, non mi sembra vada molto diversamente.
Abbiamo un collega magistrato civilista (sicuramente grande esperto di contratti e successioni) a capo della polizia penitenziaria, una funzionaria prefettizia, prossima alla pensione, che guida l’agenzia dei beni confiscati e nessuno, dico nessuno, con un po’ di esperienza antimafia nei ruoli nevralgici contro le mafie. Un sistema così può funzionare?
Non ho le risposte, ma ciascuno è capace e libero di farsi una propria idea.
E un fatto come quello di ieri – la morte di un altro uomo dello Stato, l’ennesimo, ed il ritorno delle mafie che sparano ed uccidono o feriscono, praticamente tutti i giorni – è il tragico risultato anche di queste scelte.
Sono tornati e sono più forti di prima.
Per me la questione è chiarissima.
Se un ospedale non funziona è perché o i medici non sono capaci, o non sono ben organizzati o non ci sono risorse.
Nell’antimafia, da tempo, abbiamo tutti e tre i problemi e ce li teniamo cari cari. Come potrebbe mai funzionare? Anzi, come potrebbe mai nascere una seria ed efficace risposta antimafia? E soprattutto: da chi?
Del resto, a dirla tutta, questo stato di cose non dovrebbe neanche sorprendere, se pensiamo solo che Giovanni Falcone, il genio assoluto nel mondo della lotta alle mafie, fu bocciato varie volte nel suo vano tentativo, quando era in vita, di portare avanti le sue idee.
Servirebbe, ma purtroppo temo che sia l’ennesimo auspicio inascoltato, un rilancio vero, serio e concreto dell’antimafia attraverso persone davvero competenti e strategie chiare.
Non le solite operazioni di facciata, utili solo al politico di turno ad atteggiarsi a salvatore della patria, di una patria però che continua a non difendere i suoi soldati e li lascia morire lasciati soli in una volante all’inseguimento di crudeli criminali.