Con gli anni, ormai più di 25, si è diffusa la convinzione che il cinema di Quentin Tarantino sia un film fatto di adrenalina, di azione frenetica, violenza, umorismo cinefilo. Insomma, che il cinema di Tarantino sia quello dei suoi epigoni ed emuli. Eppure, e non ci vogliono studi chissà quanto approfonditi, è evidente che i film del regista di Pulp Fiction siano tutt’altro (escluso forse il primo capitolo di Kill Bill), siano opere costruiti sui tempi morti, sugli interstizi dell’azione, su ciò che sta per succedere e su come i personaggi vivono quelle pause e attese, sui loro dialoghi, sulla capacità meravigliosa di metterli in scena.
Forse per questo si potrebbe dire che C’era una volta a… Hollywood porta a compimento, alle ultime conseguenze questa poetica, in cui gli sprazzi di violenza e azione sono dei suggelli non la sostanza del film: in questo caso, Tarantino racconta di un attore di b-movie in decadenza e del suo stuntman che anch’esso non brilla più come un volta, racconta i loro tentativi di trovare ancora un posto al sole, come è riuscito a Sharon Tate, appena giunta a Hollywood con Roman Polanski.
Il film, scritto dallo stesso Tarantino, si situa alla fine degli anni ’60, quando il sogno dell’America nata per essere libera si stava per infrangere contro i figli di Satana e la morte del sogno hippy e prende a riferimento il cinema di quel periodo per raccontare il momento in cui dopo aver perso l’innocenza con Kennedy e il Vietnam perse anche la verginità morale e culturale. Ovviamente, quello del regista non è un film storico, ma è un film in cui far sentire lo spirito della Storia attraverso la propria lettura della storia del cinema.
È il suo film più esplicitamente intessuto di cinema, perché oltre alle citazioni e alle rievocazioni a lui care, il cinema e l’industria hollywoodiana ne sono il fulcro narrativo, sono al centro del racconto: da una parte, la fabbrica dei sogni con Tate che rivede sé stessa al cinema in una sequenza di bellezza e dolcezza stupefacenti (merito anche di Margot Robbie); dall’altra, la manovalanza del cinema popolare, del basso costo, delle icone un tanto al chilo che però riempivano le sale e le tasche, che cercano di reinventarsi come Leonardo Di Caprio (memorabili i momenti sul set), o di riciclarsi come il tuttofare Brad Pitt in uno dei personaggi più belli della sua carriera.
Eppure, C’era una volta a… Hollywood non è un film nostalgico, non è un film che rimpiange un cinema che non c’è più; semmai è un film malinconico, costruito sul rimpianto di quello che poteva essere e non è stato, in cui Tarantino segue per più di due ore – prima del finale tesissimo ed esplosivo – tre personaggi spaesati che cercano un posto in quel mondo incantato. Segue il loro lavoro, i sogni, le delusioni, le piccole e grandi gioie, vuole bene loro e cerca l’affetto del pubblico, con la forza della regia e della scrittura, con gli elementi primigeni del suo cinema in cui l’azione e l’elettricità sono solo epifanie più o meno auspicabili.
In molti hanno detto che è il suo film più maturo, di sicuro è il film di un uomo di quasi 60 anni che ha capito adesso che il cinema non può cambiare il mondo o la realtà, non può riscrivere i connotati della Storia (si pensi alla delicatezza commovente di quell’ultima, consapevole inquadratura dall’alto) e allora tanto vale giocare e divertirsi, dare nuovo lustro a figure appartate o distrutte, per il gusto di farlo, per la gioia dei cuori. Certo, è un atto d’amore verso il cinema e i suoi personaggi “secondari”, ma è anche una presa di coscienza esistenziale. Soprattutto, è un gesto di purissimo cinema, di quelli che il grande schermo e i 35mm non possono far altro che amare.