Maurizio Crosetti per il Venerdì di Repubblica scrive di un dattiloscritto di Cesare Pavese rimasto chiuso in una valigia per circa 90 anni e ora affidato al quotidiano da Maria Luisa Sini, nipote di Cesare Pavese, oggi 92enne. Si tratta della prima stesura della sua tesi di laurea, Interpretazione della poesia di Walt Whitman, anno 1930. Un documento “emozionante e prezioso” di una tesi di laurea che fu un compromesso per essere accettata ai tempi del fascismo, che di certo non vedeva di buon occhio un ‘poeta della libertà’ come Whitman.
Nel settantesimo anniversario della morte di Cesare Pavese, che si tolse la vita nel 1950, l’editore Einaudi, di cui Pavese fu anche redattore, stampa una riedizione completa delle sue opere. L’inedita prima versione della tesi di laurea fornisce poi l’occasione di parlare con la nipote, che visse insieme allo zio Cesare quando Pavese lasciò Torino nel corso della Seconda Guerra Mondiale, trasferendosi dai parenti nel Monferrato Casalese, a Serralunga di Crea.
Scriveva seduto al tavolo della cucina, unico locale della casa riscaldato da una stufa: ma Cesare Pavese, ricorda la nipote, “non era mica un freddoloso, si lavava con l’acqua gelata e nel letto non voleva lo scaldino. Scriveva e traduceva, e una volta fece per me un tema su Dante: ebbene, la professoressa mi mise un 3, però allo zio non ebbi mai il coraggio di dirlo”.
CESARE PAVESE: LA NIPOTE RACCONTA LA VITA QUOTIDIANA
Cesare Pavese ebbe qui la prima ispirazione dei Dialoghi con Leucò, “forse, tra i libri che aveva scritto, quello che lui preferiva”, dice la nipote, e l’idea per Il diavolo sulle colline. Un uomo vestito di nero che fumava la pipa, così appariva agli abitanti del luogo quando lo vedevano scendere dalla scalinata a colonnine per avviarsi nel bosco. Non dava confidenza, molto timido e sensibile.
Nei mesi da sfollato fece amicizia con padre Giovanni Baravalle, insieme parlavano di Dio: “Ma una volta tornati a Torino, credo che in chiesa non sia mai più entrato”, ricorda Maria Luisa. In casa della nipote, un paio di scaffali contengono dei vecchi volumi appartenuti allo scrittore: “Lì sotto c’erano le scatole con i suoi manoscritti, da bambine ci giocavamo attorno, una volta un coperchio se lo mangiucchiò un cane. In quanto alla tesi di laurea, quasi non ricordavamo nemmeno di averla.
Lui era del 1908, io del ’28 – proseguono i ricordi -. In casa non avevamo alcuna percezione che lo zio fosse un genio. Prima che morisse, i suoi libri non mi avevano mai interessato, poi però mi laureai con una tesi su Il mestiere di vivere, il diario in quei giorni ancora inedito, il testo che lo zio aveva sulla scrivania quando si suicidò. Due mesi prima, quando vinse lo Strega, ricordo che in casa non si fece neppure un brindisi. Siamo sempre state persone di poche cerimonie”.
CESARE PAVESE: LE DONNE E GLI ULTIMI GIORNI
Cesare Pavese d’altronde, introverso, solitario, appartato e “troppo” sensibile, non parlava mai dei suoi libri: “Forse non ci riteneva degni”. Lo zio chiedeva consigli alle nipoti quando doveva scrivere “cose di femmine” e Maria Luisa ricorda: “In quel campo, lui, beh, lasciamo perdere… Le sceglieva una peggio dell’altra, oh signùr, a parte la Pivano che non volle sposarlo.
C’era la donna con la voce roca, per la quale di fatto si fece mandare al confino: quando tornò, e alla stazione di Porta Nuova seppe che lei nel frattempo si era sposata, cadde svenuto. E poi quell’americana, l’attrice, l’ultima. Eppure lo zio era un bell’uomo, era alto e non privo di fascino: alle donne piaceva. Ricordo che una sua allieva gli mandava ogni settimana un mazzo di rose rosse, soltanto che lei era brutta, poverina”.
Sugli ultimi giorni di vita invece la nipote ricorda che Cesare Pavese non stava bene, ed era deluso anche dopo avere vinto il Premio Strega: “Diceva di sentirsi come un fucile sparato. Era nauseato, vittima di maldicenze. Il mondo della cultura è sempre stato pieno di invidie e gelosie. Gli avevano fatto pesare di non avere combattuto, di non essere stato partigiano, i comunisti specialmente. Ma lo zio aveva l’asma, ogni sera faceva i suffumigi nel bacile: come partigiano sarebbe morto in tre giorni, non era mica Fenoglio! Visse riparato e solo, lavorando sempre”. Fino al tragico epilogo…