Pubblichiamo la relazione sul tema dell’Accanimento terapeutico tenuta dal prof. Carlo Bellieni, membro della Pontificia Academia pro Vita, al congresso “Yes to life!” organizzato dal dicastero vaticano Pro Laicis e dall’associazione “Il cuore in una goccia” in Città del Vaticano dal 23 al 26 maggio.
I recenti casi di sospensione delle cure che sono risaltati alle cronache, da Charlie Gard ad Alfie Evans fino a Vincent Lambert, ci impongono di capire una volta per tutte: cosa si intende con “accanimento terapeutico”? Quando si possono realisticamente e moralmente sospendere le cure a un paziente? Vi propongo qui una sorta di rivoluzione copernicana, che ribalta un po’ il modo di vedere questo problema.
Occorre fare un percorso insieme se si vuole avere le idee chiare su un tema che chiaro non è. Infatti è moltissima la confusione in questo campo: addirittura dentro lo stesso ospedale si sospendono le cure con criteri diversi tra un reparto e l’altro, e tra nazione e nazione nella stessa piccola area della Scandinavia si usano criteri differenti.
Viene proposto generalmente di usare il best interest principle o “principio del miglior interesse”. Niente di più fumoso, perché è assolutamente impossibile valutare qual è il miglior interesse per un’atra persona: a stento sappiamo qual è il miglior interesse per noi stessi, figuriamoci se sappiamo metterci nei panni altrui. Tanto che vari studiosi hanno proposto di usare invece del best interest principle l’harm principle, cioè il principio del danno (si lascia ai genitori la massima potestà sul figlio, tranne i casi in cui esplicitamente lo danneggino), visto che è certamente più semplice valutare cosa fa male rispetto a cosa fa bene. Oltretutto, pensate alla contraddizione in termini: la parola interesse implica che un soggetto sia interessato a un trattamento; ma come può esserlo un soggetto in stato di coma o di stato vegetativo permanente? Semmai si potrebbe parlare di “bene del paziente”, e non di “interesse”; ma per evitare accuse di paternalismo il termine “bene” non si può usare, ed è stato accantonato.
Anche il magistero della Chiesa cattolica spiega che il paziente può rifiutare le cure, purché su base razionale e non autolesionistica. Ma qui parleremo di come e quando sospendere le cure in chi non può esprimersi, cioè i bambini e le persone in coma o disabili mentali.
Le quattro aree di cura in cui si presume che il soggetto non abbia interesse a un prolungamento delle cure vitali sono le seguenti: cure oggettivamente inutili, cure troppo dolorose, cure che prolungano una vita del disabile, cure che prolungano la vita in stato non dignitoso.
Ma qui lo diciamo subito per togliere ogni dubbio: di queste quattro aree, una è banale e non dovrebbe nemmeno essere citata in quanto assolutamente ovvia, e due non hanno motivo di essere. L’area scontata è quella delle cure inutili: solo un pazzo o un ignorante prolungherebbe trattamenti che sono palesemente inutili.
Le altre due aree che invece sono fuori luogo e non hanno motivo di essere sono quella delle cure per il disabile e quelle per evitare una vita non dignitosa; queste due aree normalmente si uniscono a una terza che è quella delle cure troppo dolorose e nei Paesi occidentali si includono sotto il titolo di accanimento terapeutico. Ma le cure per far continuare la vita a un soggetto disabile non sono sbagliate, perché qualunque soggetto disabile ha diritto a vita e cure; e le cure che per qualcuno sono fatte in un soggetto cui il prolungamento della vita farebbe secondo alcuni perdere dignità – per esempio, il soggetto in coma permanente – non sono sbagliate, perché la perdita di dignità sta negli occhi e nel pregiudizio di chi guarda. Certamente, se le cure al disabile o al soggetto in coma gli provocano dolore, allora è un altro discorso che ora affronteremo.
Resta allora un ambito in cui possiamo parlare di cure fuori luogo o accanimento terapeutico: le cure dolorose, o – cosa delicata e da capire bene – le terapie che prolungano una vita oggettivamente dolorosa.
Quest’ultimo punto lo affrontiamo subito: si tratta, per esempio, di quei pochi ma possibili soggetti che hanno una patologia degenerativa o tumorale molto dolorosa fino a essere insopportabile, in cui si continua a fare terapie salvavita senza poter evitare di fargli provare un dolore acerrimo. In questo caso anche le comuni terapie che condannerebbero a giornate colme di dolore possono essere sospese: l’intento, ovviamente, non è quello di far morire, ma di evitare il dolore senza dare volutamente la morte.
L’altro punto, le terapie acerrimamente dolorose, ha lo stesso principio di quello ora citato nel caso limite di sospendere terapie che non danno dolore in sé ma non riescono a impedirlo: mai dare la morte, ma accettare talora di sospenderle allo scopo di evitare dolore e sofferenza insopportabili, in particolare in chi non può esprimersi.
Dunque possiamo dire che il concetto di accanimento terapeutico non deve essere confuso con quello di cure inutili (che solo un ingenuo o un incompetente vorrebbe somministrare), ma che è sinonimo di crudeltà e come tale deve essere evitata. La crudeltà (l’accanimento terapeutico) per essere tale deve superare una soglia di dolore che lo definisce come “dolore forte”. In certi casi, quando il soggetto non trarrà mai vantaggio dalle terapie perché il suo sistema nervoso centrale è completamente distrutto e il soggetto ha perso definitivamente capacità di relazione, nemmeno un dolore “moderato” può essere accettato perché, a differenza del caso precedente, il soggetto non ne trarrebbe beneficio.
Quest’ultimo caso rientra nel cosiddetto principio del “doppio effetto” riportato da Tommaso d’Aquino e vari altri filosofi: si accetta un effetto collaterale di un intervento in sé mirato a fare il bene. Diminuire le cure dolorose in un soggetto può diminuirne l’efficacia e metterlo a rischio, ma se l’intento è l’obbligo morale di non farlo patire inutilmente, questo può essere accettato.
Si tratta qui di una vera rivoluzione copernicana: finora si era detto in maniera fumosa, in verità, che per accanimento terapeutico si deve intendere l’uso di cure sproporzionate, ovvero quelle di tipo “straordinario” o infine quelle “troppo onerose”. Ma sono concetti fumosi e ambigui e dunque inutili se non a tirare le cure dalla parte che ci interessa quasi in maniera pregiudiziale, ma che hanno al centro non il paziente, ma le opinioni degli astanti, dei medici, dei familiari. Usare invece il concetto del dolore, la sua misurabilità, il suo essere una forma di espressione, di linguaggio involontario del paziente, porta al centro della cura il paziente, la sua espressione, il suo sentire.
Ecco, allora, la rivoluzione copernicana sul concetto di accanimento terapeutico: si passa da considerare al centro del ragionamento “gli altri”, cioè noi che guardiamo dall’esterno il malato, per mettere al centro il malato, in particolare il malato che non può esprimersi normalmente, con l’unica forma di espressine che gli resta: i segnali di dolore.
Certo, è facile passare accanto a un soggetto in coma o a un prematuro, dire “non parla” e finire con l’ignorarlo. Il medico cosciente, invece, va a cercare i segni di questo linguaggio nascosto, i segni del dolore, per dare il dovuto sollievo. Vedremo, ora, quali sono questi segnali, di cui, in verità, si hanno pochi riscontri nelle cronache che hanno riguardato i casi francesi e inglesi sopra riportati di sospensione delle cure.
In primo luogo, esistono scale di valutazione del dolore e della sofferenza fatte mettendo insieme vari parametri come i movimenti delle mani, la mimica facciale, i cambiamenti in frequenza cardiaca, pressione arteriosa eccetera, dando a ogni parametro un certo punteggio, si sommano i punteggi dei parametri e il risultato finale ci dà il livello di dolore.
Ma il dolore e lo stress si valutano anche in altri modi: misurando nel sangue o nella saliva il livello degli ormoni dello stress, valutando con l’EEG o con la risonanza magnetica l’attivazione delle aree del dolore nel cervello, valutando l’attivazione del sistema nervoso cosiddetto simpatico, quello che funziona in caso di stress, e questo si può fare in vari modi, ad esempio misurando la variabilità della frequenza cardiaca o la conduttività elettrica della cute. Sono tutti mezzi valutati scientificamente, accettati dalla comunità scientifica e attivi in molti ospedali.
Per inciso, un mezzo per sapere il grado di stress di un soggetto – questo non utile in questi casi – è misurare o semplicemente valutare acusticamente quanto acuta è la sua voce o il suo pianto. Infatti le corde vocali si tendono involontariamente in caso di stress per l’attivazione del nervo vago, e per questo chi ha paura o terrore grida in maniera acuta. Su questa base costruii tempo fa un sistema di valutazione del dolore del pianto del neonato.
Insomma, il dolore e lo stress si possono misurare. Quindi possiamo sapere se il livello di stress e dolore è basso, medio, alto o altissimo. In caso di dolore altissimo, in un soggetto che non si può esprimere e che non ha mai detto di consentire a sentire quel dolore, abbiamo l’obbligo di mitigare quel dolore. Non importa se i genitori (o la moglie) hanno detto che lui o lei lo possono accettare: nessuno può accettare qualcosa per un altro che non si esprime e non si è mai espresso, perché troppo piccolo di età.
Questo si chiama pain principle o “criterio del dolore”, il principio della diminuzione dell’intensità delle cure sulla base del dolore misurato. In questa definizione stanno tre punti:
– diminuzione dell’intensità delle cure: significa che non si tende a far morire il soggetto, ma si toglie lo stimolo doloroso, o come dicevamo prima, si evita di prolungare uno stato doloroso con cure che non riescono a togliere il dolore;
– sulla base del dolore/stress: non si sospendono le cure sulla base di interessi di altre persone che non siano il paziente e l’interesse primo è quello di non sentire il dolore: non si sospendono per disabilità, non si sospendono per presunta perdita di dignità nei fatti inesistente;
– del dolore/stress misurato: il dolore/stress non può essere valutato in astratto, ma con i mezzi che abbiamo riportato prima; altrimenti si finisce per vedere il dolore o non vederlo dove piace a noi, al nostro stato d’animo, ai nostri pregiudizi, ai nostri interessi, alle nostre paure.
Va sottolineato che in certi casi di alcune terapie o di situazioni dolorose di medio-basso livello e transitorie, un certo grado di dolore può essere accettato nell’interesse del paziente, che da quelle terapie può trarre poi un giovamento. Ma se il paziente non ne traesse giovamento, il grado di dolore accettabile deve essere pari a zero, per esempio in un soggetto in coma persistente o in stato vegetativo permanente.
Per concludere, diamo alcuni messaggi da portare a casa:
1) l’accanimento terapeutico non è ogni terapia inutile o quelle genericamente “sproporzionate” (concetto troppo soggettivo), ma la terapia inutilmente dolorosa, o il prolungare farmacologicamente le giornate piene solo di sofferenza;
2) questa sofferenza non deve però essere ipotetica, ma documentata.
Usando il pain principle, a) si evita di togliere le cure che non provocano dolore; b) si evita di dare cure inutili o cure dolorose in chi non si esprime; c) si evita di decidere in maniera soggettiva ed estemporanea.