Quasi quarant’anni non bastano a cancellare l’odore di cenere radioattiva: il 26 aprile 1986, alle 1:23 del mattino, il reattore 4 di Chernobyl esplodeva durante un test di sicurezza diventato simbolo di arroganza tecnologica. Una combinazione letale: errori umani, progettuali – i reattori RBMK sovietici, privi di un adeguato sistema di contenimento – e una cultura del segreto che ritardò l’allarme alla popolazione.
L’esplosione scagliò in atmosfera isotopi letali – cesio-137, iodio-131 – contaminando un’area pari a metà dell’Italia: i primi a morire furono due operai, vaporizzati dall’impatto; poi 31 vigili del fuoco, eroi inconsapevoli, disintegrati dalle radiazioni.
Oggi, nella “zona di esclusione” di 30 km, la vita ha riconquistato il suo spazio – lupi, linci, cavalli selvatici – ma il prezzo è scritto nel DNA: alberi deformati, uccelli con becchi malformati, terreni che resteranno tossici per millenni. “La natura qui non guarisce: sopravvive” spiega Maryna Shkvyria, biologa ucraina e nel frattempo, i sopravvissuti – i “liquidatori”, gli sfollati – portano cicatrici invisibili come tumori alla tiroide, leucemie, disturbi psicologici: l’OMS parla di 4.000 decessi legati al disastro e studi indipendenti – come quello del Center for Russian Environmental Policy – moltiplicano il numero per 250 per cui ogni famiglia ucraina ha un parente malato o morto per Chernobyl.
Il sarcofago di acciaio completato nel 2016 – una colossale tomba da 2,1 miliardi di euro – frena le radiazioni, ma non placa i fantasmi; la serie TV del 2019 ha riacceso i riflettori, trasformando Pripyat in meta turistica con visitatori in tute bianche che scattano selfie tra i giostroni arrugginiti, mentre i contatori Geiger tintinnano come moniti. “È un paradosso: la catastrofe diventa intrattenimento” denuncia il fisico Valerij Starodumov ma quel silenzio denso di storia chiede di essere ascoltato: perché Chernobyl non è un’icona del passato, ma un promemoria.
Chernobyl e l’eredità tossica: dall’URSS al referendum italiano, l’onda che cambiò il mondo
La nube radioattiva che nel 1986 avvolse l’Europa non inquinò solo l’aria: corrose la fiducia nel progresso: in Italia – raggiunta dai venti contaminati il 30 aprile – il panico si tradusse in divieti surreali – “Non mangiate insalata!” – e nel referendum del 1987 che chiuse le centrali nucleari. Geopoliticamente, il disastro accelerò il crollo dell’URSS: la menzogna di Stato – “La situazione è sotto controllo” – squarciò il velo di propaganda, alimentando ancor di più il dissenso.
Oggi, con la guerra in Ucraina, la minaccia ritorna: nel 2022, le truppe russe occuparono la zona, sollevando polveri radioattive con i carri armati. “È come aver riacceso un timer” è l’avvertimento del direttore dell’impianto, Valentyn Heiko.
A 39 anni dall’esplosione, Chernobyl interroga il futuro: può l’umanità gestire l’atomo senza autodistruggersi? Il trauma resta nella coscienza: in quelle macerie non giace solo cemento ma riposa l’illusione di poter dominare la natura.