Le conclusioni dell'assemblea sinodale fanno discutere, e spesso sono state presentate dai media in modo distorto. Le importanti parole del Papa
All’inizio del suo intervento introduttivo all’assemblea sinodale svoltosi la settimana scorsa, il presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, mons. Erio Castellucci, riprendeva quanto accaduto durante l’udienza avuta dai membri dell’assemblea con Leone XIV: “Ieri pomeriggio in Aula Paolo VI, durante l’incontro giubilare delle équipes sinodali, a chi gli chiedeva in che modo il processo sinodale può ispirarci, Papa Leone ha risposto: personalmente, mi sono sentito nella vita poche volte ispirato da un processo; io mi sono sentito ispirato da persone che vivono l’entusiasmo della fede”.
Se le parole del pontefice lasciano trasparire una buona dose di ironia, va anche sottolineato il realismo di mons. Castellucci nell’esordire con una tale citazione davanti ai mille sinodali.
Prendendo spunto anche dalla verità sottostante all’ironia del pontefice e dal realismo dei vertici della CEI credo si possano fare alcune veloci osservazioni.
La prima riguarda il contesto nel quale si colloca il testo votato il 25 ottobre. Anche se, pur con le dovute differenziazioni, questa assemblea sinodale, come testimonia anche la scadenza decennale, si può porre nella scia dei cinque convegni ecclesiali succedutisi dopo il Concilio Vaticano II, Roma nel 1976, Loreto nel 1985, Palermo nel 1995, Verona nel 2006, per finire con Firenze nel 2015, in questo caso, almeno a mio parere, si deve fare riferimento alla XVI assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi.
In effetti, il punto di partenza per comprendere il senso de Lievito di pace e di speranza. Documento di sintesi del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia non può che essere il documento finale del Sinodo dei vescovi conclusosi l’anno passato, Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione, nel quale si afferma che “In una Chiesa sinodale, la competenza decisionale del Vescovo, del Collegio episcopale e del Vescovo di Roma è inalienabile, in quanto radicata nella struttura gerarchica della Chiesa stabilita da Cristo a servizio dell’unità e del rispetto della legittima diversità. Tuttavia, non è incondizionata: un orientamento che emerga nel processo consultivo come esito di un corretto discernimento, soprattutto se compiuto dagli organismi di partecipazione, non può essere ignorato”.
Le conclusioni approvate il 25 ottobre dall’assemblea sinodale italiana sono l’esito finale di un processo consultivo che non può essere ignorato dall’autorità interessata, vale a dire dalla CEI.
A chiarire ulteriormente il rilievo del documento finale del Sinodo dei vescovi sta anche la sua conclusione di ritenere opportuna una revisione della normativa canonica per chiarire tanto la distinzione quanto l’articolazione, tra consultivo e deliberativo, del voto nei vari organismi, a riprova dell’urgenza che il legislatore canonico, fatto salvo il principio dell’unità della sacra potestas che deriva dal sacramento dell’ordine, riesamini le condizioni della partecipazione alla potestà di governo da parte dei fedeli laici e, quindi, delle molteplici implicazioni che potrebbero derivare per le materie oggetto delle proposizioni contenute nel Documento di sintesi del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia.
Entrando nel merito del documento approvato sabato, non si può non rimarcare che in esso sono contenute oltre cento proposte, inviti o auspici operativi raggruppabili intorno ad una cinquantina di tematiche che vanno, per citarne solo alcune, dal disarmo e la pace all’ecumenismo e al dialogo interreligioso, dall’attenzione al linguaggio digitale alla liturgia e alla trasmissione televisiva delle messe e alla revisione dei testi liturgici, dall’attenzione ai giovani alla formazione di tutti i fedeli. Ancora, troviamo proposizioni che vanno dalla pietà popolare al rinnovamento dell’iniziazione cristiana e al catecumenato, dalle proposte per la collaborazione interparrocchiale alle comunità energetiche, da quelle sulla ministerialità dei laici a quelle sulla formazione nei seminari e sugli organismi di partecipazione nelle diocesi e nelle parrocchie.
Da un così lungo elenco, almeno a mio parere, sembra scorretto, oltre che ingeneroso, isolare, per poi proporle come esemplificative, le tre proposte che riguardano il sostegno allo studio del diaconato delle donne e l’atteggiamento di maggiore accoglienza e di non discriminazione delle persone omoaffettive e transgender e dei loro genitori che già appartengono alla comunità cristiana.
Fatta questa premessa, in sede di primissima e provvisoria conclusione, si può rilevare che siamo in presenza di un iniziale, e un po’ caotico, tentativo di rispondere in maniera pensata e organica alle questioni che la Chiesa italiana si trova di fronte in questo primissimo scorcio di terzo millennio. È difficile, e sarebbe ingiusto, in questa fase, valutare l’importanza complessiva delle varie proposte in ordine al perseguimento della sinodalità, anche perché esse sono strumentali alla missionarietà, cioè a creare le condizioni di un incontro con la comunità cristiana – ma si dovrebbe dire con i cristiani – di persone che ora le sono estranee.
Non si tratta, cioè, di proposte finalizzate ad un mero miglioramento dell’istituzione ecclesiastica e, tanto meno alla sola realizzazione di un virtuoso ed esemplare processo di consultazione.
Questo processo si svolge in un tempo nel quale si può constatare, e prevedere per il futuro, come una delle conseguenze del processo di secolarizzazione in atto nella società sia l’assimilazione dell’esercizio del diritto di libertà della Chiesa a esercizio del diritto collettivo di libertà religiosa dei cristiani.
Poiché però, è indubitabile che la dimensione istituzionale è essenziale per la Chiesa cattolica, uno dei compiti ineludibili della Chiesa cattolica in Italia, almeno a mio parere, è allora quello di rileggere le espressioni concrete che ha assunto l’istituzione ecclesiastica nel nostro Paese, per definirne il profilo da salvaguardare nella odierna società secolarizzata.
E in questa riflessione risulta essenziale la missionarietà che vedrà una Chiesa composta non solo da fedeli, che cristiani lo sono stati da sempre, ma anche da convertiti, da persone rinate per opera dello Spirito. Una situazione adombrata, con un’immagine colorita, nella prima lettera ai Corinzi: gli ingiusti (immorali, idolatri, adulteri, depravati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, calunniatori, rapinatori) non erediteranno il regno dei cieli. Ma, prosegue Paolo, “tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”. La missione coincide con la conversione degli uni e degli altri.
Da un altro profilo, infine, non va sottovalutato il rischio creato da un duplice equivoco: l’uno, la sovrapposizione del processo alle persone, l’altro, la riduzione del nucleo essenziale della proposta cristiana al mero conservatorismo morale e ideologico. Un rischio, che è dietro l’angolo in una Chiesa (in cristiani) che assume i toni della società civile, per cui la dialettica tra le sue varie anime, risulta, anche inconsapevolmente, condizionata da un atteggiamento di difesa identitaria che indebolisce la volontà di testimoniarsi, nella diversità, le ragioni della propria fede.
Anche attraverso questi snodi si può concretizzare la possibilità che questo documento, ma direi la testimonianza ecclesiale che lo ha animato, diventi il primo passo nella lunga strada per fare della Chiesa italiana un luogo – per riprendere l’espressione di Leone XIV – dove sentirsi ispirati da persone che vivono l’entusiasmo della fede.
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