Michel Hazanavicius con The Artist lancia unelegante provocazione alla ridondante e altisonante retorica cinematografica contemporanea, che cavalca londa del 3D tra effetti speciali e cinema digitale. E un sonoro che rimbomba. La scelta del muto e del bianco e nero per raccontare lascesa come attrice di Peppy Miller (Bérénice Bejo) e il complementare declino di George Valentin (Jean Dujardin), divo del muto schiacciato dalla forza dirompente del sonoro, sembrano porre il film come pura critica al cinema di oggi. La posizione di Hazanavicius, in realtà, è molto più sottile. E usa questi inusuali strumenti linguistici per raccontare una verità innegabile che si inserisce nel più ampio contesto delle innovazioni tecnologiche che hanno scandito le ere cinematografiche. Nel senso, nel fine e nel rapporto che queste novità hanno maturato con la platea.
Il cambiamento serve, ma bisogna saperlo affrontare. , in nuce, uno specchio del proprio tempo, ma anche un suo derivato culturale e sociale che a volte, come in questo film, serve a modellare unarte rispetto ai tempi duri e spietati della Storia e delleconomia. Dando una risposta più attuale allintelligenza sempre in fermento del pubblico. Lincastro perfetto della parabola ascensionale di Peppy Miller, volto che segna lavvento del sonoro, e quella funesta di Valentin, che rifiuta la novità – sembra voler suggerire il regista – può avere solo un senso. Le innovazioni non vanno evitate, bensì assecondate, pur non abusandone, e, nel caso, bisogna sapersi reinventare rispetto a esse.
Tutto questo, però, è solo frutto di ragionamenti. Quando ci si siede davanti al grande schermo e si inizia a veder sfilare una dopo laltra le scene di questo film, la sensazione è di rapimento. Dovuto, soprattutto, a scelte linguistiche che innegabilmente producono un effetto malinconico e nostalgico verso unepoca che non cè più. Verso un modo di comunicare che ha semplicemente smesso di esistere. E che, a onor del vero, ci fa amare la pellicola, inchiodandoci alla poltrona e facendoci emozionare. Al di là di ogni retorica querelle sul modo di fare cinema. Hazanavicius riesce in tutto questo attraverso la storia, semplice e non banale nella sua linearità drammaturgica, attuale rispetto allepoca che racconta e alla nascita del divismo hollywoodiano, non anacronistica rispetto alloggi.
Sia nel sogno che Peppy Miller nutre di diventare una grande attrice sia nell’interpretare la metafora del nuovo che si impone spazzando via il vecchio. È anche una bella storia d’amore, quella raccontata dal regista. In parte inusuale e moderna nel suo invertire i ruoli e resa ancor più forte e commovente dal linguaggio del film. Per cui la forza comunicativa delle emozioni è affidata al bianco e nero, che irrompe sullo schermo spiazzando il nostro sguardo, ormai quasi abituato alla profondità del 3D. In grado, quest’ultimo, di regalarci uno spazio “reale”, ma che annulla la fantasia nascosta in quel gioco di bianchi, neri e grigi, ombre e luci che tanto ispira la nostra immaginazione.
La potenza del film, però, è legata anche all’espressività degli attori e delle situazioni raccontate, alla gestualità, alle azioni, che restano il motore di ogni storia. Molto più delle parole, spesso retoriche e belle, ma vuote di contenuto. Forse è questa l’unica grande critica al cinema di oggi. L’uso di parole strabordanti di senso che tolgono forza e senso alle circostanze. Laddove il muto doveva sforzarsi di completare il significato di uno stato d’animo anche attraverso la costruzione semantica di una scena. In cui, cioè, ogni elemento contribuiva – nel suo piccolo – a realizzare un Tutto completo nel significato. Come un tassello in un grande puzzle. È così che secondo Hazanavicius il sonoro irrompe sullo schermo.
Come un incastro che riempie un quadro, conferendogli un senso più ampio e profondo. Il suono non è parola. È, ci dice il regista, un respiro affannoso, ma felice e discreto, dopo un sorridente e liberatorio numero di tip tap.