Aron Ralston, giunto nella piena maturità della giovinezza, grande sportivo e amante dei vasti spazi delle canyonlands dello Utah, entusiasta dellazione e della libertà, decide di fare un lungo giro solitario in mountain bike nellarea del Blue John Canyon. La giornata e i paesaggi sono splendidi e il nostro incontra casualmente anche due belle ragazze con cui fare tuffi in un laghetto nascosto.
Ma il tempo è davvero bello, perché accontentarsi? Salutate le ragazze e ritrovatosi da solo decide di percorrere un profondo e stretto crepaccio che sprofonda nel cuore della roccia. Incautamente, Aron muove un masso che, cadendo e riassestandosi, si incastra contro le pareti del canyon bloccandogli il braccio destro. Il protagonista, che si era attrezzato per unuscita di un solo giorno, si trova senza cibo e con poca acqua; qui comincia lodissea del film 127 ore.
Verrebbe facile, a questo punto, pensare a una storia tetra e claustrofobica in cui lapprossimarsi lento della fine viene scandito dal muoversi delle ombre e dai cupi pensieri del protagonista. Ma gli eventi di 127 Ore si evolvono diversamente. Dal momento dellincidente la narrazione si svolge su due piani, quello dellesperienza presente e quello dellesperienza passata: due logiche temporali diverse ma nello stesso tempo legate inscindibilmente dalla persona che le vive (o le ha vissute).
L’esperienza del presente, per quanto tragica e apparentemente senza soluzione, è sostenuta dal ricordo di quanto è stato vissuto, dalle scelte fatte o perdute, dagli incontri e dagli amori presi o lasciati. Il protagonista, nella sua solitudine, medita se davvero la libertà sia riducibile a percorrere grandi spazi, senza neppure comunicare a qualcuno la propria meta, per affermare la propria indipendenza, oppure la libertà stia altrove, nell’affetto dei propri cari, degli amici e nello sguardo di una ragazza amata e persa per la paura di legarsi. Il crepaccio non è più uno spazio chiuso, ma diventa il punto di partenza di un viaggio in cui il sé cerca di resistere per non perdersi nel delirio di un uomo ormai convinto di morire.
Il film è certo inquadrabile nel genere “avventura”, ma percorre questo tema in modo anomalo perché solo in parte caratterizzato da un’azione fisica: la parte principale della storia è un inatteso percorso dentro di sé, che tuttavia non si chiude in un’introspezione senza uscita, ma si apre sulla storia personale del protagonista, rileggendola sotto una nuova luce.
I pareri sul film sono stati molto diversi anche se generalmente positivi, ma la lettura che ne è stata data varia a seconda dei critici. Ritengo tuttavia che questo sia un grande pregio: essendo una storia personale, essa viene inevitabilmente letta dallo spettatore a partire dalla propria esperienza, dai valori e dal senso che ciascuno dà alle cose. Credo piacerà agli alpinisti (che vi ritroveranno temi già incontrati in La morte sospesa di Kevin MacDonald), ai trekker e a tutti quelli che non vivono i grandi spazi solo come un elemento geografico o geologico, ma anche spirituale.
Notevole l’interpretazione del protagonista James Franco, capace di una mimica straordinariamente realistica, che rende con grande umanità i vari stati d’animo; molto interessante l’idea di affidare a due diversi direttori della fotografia la descrizione del momento reale e quella dei flashback, il che porta a proporre i due tempi con una prospettiva differente.
Il regista Danny Boyle, dopo il grande successo di The Millionaire, avrebbe probabilmente potuto girare qualsiasi cosa (gli avevano proposto persino uno 007); ha scelto invece un film difficile, raccontando una storia vera che avrebbe potuto facilmente correre il rischio di scivolare nel noire o nella spettacolarizzazione tragica. Credo che l’essere riuscito a mantenere la narrazione nella traccia di un racconto di grande umanità vada tutto a suo grande merito.