L’AMORE DURA TRE ANNI/ Un film sulle “regole” smentite dalla vita

- Maria Luisa Bellucci

MARIA LUISA BELLUCCI recensisce e commenta il film L'amore dura tre anni, la storia del trentenne Marc Marronier diretta dal regista esordiente Frédéric Beigbeder

amore_tre_anni_r439 Una scena del film L'amore dura tre anni

Strano, l’amore. Porta alle stelle e poi ti fa precipitare giù all’inferno. Non si sa bene se sia perché è un sentimento a scadenza o perché a volte l’abitudine gioca brutti scherzi. O semplicemente perché quella che dorme accanto a te, in realtà, non è la tua anima  gemella. confuso e disperato Marc Marronier (Gaspard Proust). Trent’anni e un matrimonio felicissimo trasformatosi in un divorzio in soli tre anni dall’inizio dell’idillio. Con la moglie che legge sul cellulare dell’amato coniuge un sms di troppo, prepara i bagagli e se ne va di casa. Mica da sola, tra le braccia di Marc Levy, un noto scrittore francese. Lasciando l’ex maritino in preda a disperata depressione.

Così, Marronier, critico letterario di professione, sfrutta le conoscenze che il suo secondo lavoro – quello di cronista mondano – gli ha procurato per affogare la tristezza in fiumi di alcol anestetizzante. Fino a quando non tenta la soluzione estrema. Ma – perchè la vita è sempre piena di MA – Cupido torna a bussare alla sua porta sotto le spoglie di Alice, moglie di uno dei suoi cugini e conosciuta, quando ancora era marito devoto, in occasione di un funerale di famiglia. Perché quando è amore è amore. A prescindere. Dal proprio sguardo sulle circostanze, per esempio. O dalle circostanze stesse, che non sono sempre del tutto favorevoli.

Succede così che Marc, per digerire la sbornia dell’abbandono coniugale, si getta a capofitto nella stesura di un libro del tutto mediocre, per chi ne capisce, ma di enorme successo tra il pubblico. L’amore dura tre anni, appunto. In cui con una vena misogina e disperata si abbandona alla definizione di una regola dei sentimenti. Che viene immancabilmente smentita dalla vita.

Frédéric Beigbeder debutta al cinema con l’adattamento del suo romanzo, da cui traggono il titolo sia il film che l’opera prima del suo protagonista, dopo aver imboccato con successo diverse strade. Quella del pubblicitario, del critico letterario, dello scrittore ed editore.

Lo fa, secondo noi, con un certo snobismo transalpino. Trasformando quella che sarebbe potuta essere una brillante commedia sull’amore in una commedia per molti, ma non per tutti. Soprattutto nel senso che in pochi riderebbero e godrebbero appieno della sua piacevolezza. Resa un po’ meno incisiva dalla narrazione, interrotta e racchiusa in tre capitoli uniti tra loro da un certo fil rouge e, in particolar modo, dal ritmo e delle situazioni, di gusto molto locale specialmente nella scorrevolezza.

Sembra quasi che Beigdeder abbia voluto fare il suo ingresso nel mondo del cinema con una commedia di stampo autoriale. Che però, dati i tempi che il grande schermo sta vivendo, è una marca che solo grandi registi e grandi tematiche (per importanza narrativa o storica) possono permettersi di accogliere. In questo caso un incedere un po’ più vezzoso e meno elitario avrebbe giovato alla scorrevolezza, decisamente noiosa in alcuni momenti. E agli incassi, dati i miseri introiti registrati.







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