No, non ci siamo. Chi pensava di andare a vedere Scarface o Gli Intoccabili del nuovo millennio resterà molto deluso. La storia cè, non si può negare. A mancare in Gangster Squad, però, è tutto il resto. Siamo nella Los Angeles della fine degli anni Quaranta. Il 1949, per la precisione. Le ferite della Seconda guerra mondiale si fanno ancora sentire. Tra feste, lusso e celebrità. A rimbombare, soprattutto, sono i ricordi dei campi di battaglia. Il senso vero della guerra, quello che ci si riporta a casa anche quando pace è stata fatta. Così, almeno, è per il sergente della polizia John OMara.
Reduce con il fisique du rôle, OMara vaga per le strade della città degli angeli animato dalla necessità di rimettere ordine nel caos. Sì, perché cè un altro cittadino, molto più illustre di lui, che tiene in pugno lanima di Los Angeles. Si chiama Mikey Cohen e una volta faceva il pugile. Assetato di vittoria – o forse semplicemente incapace di perdere – Mikey ha messo al tappeto chiunque. A partire dai piani alti delle istituzioni, la maggior parte asservite al suo grilletto facile. Lui è il padrone, anzi, come le sue stesse parole recitano di fronte a un suo uomo che sta per essere giustiziato Sono io Dio, tanto vale che giuri su di me. Non cè male.
OMara non è lunico, però, a voler rimettere Mikey Cohen al suo posto. Bill Parker, il Capitano della Polizia, lo mette al comando di una squadra – tutta da reclutare – che deve, DEVE assolutamente, distruggere Cohen. OMara li sceglie uno per uno. Sono cinque e hanno i modi bruschi che li rendono poliziotti sopra le righe.
E fin qui va quasi tutto bene. Anche perché i fatti sono tratti da una storia vera e la ricostruzione di quei mitici anni Cinquanta piace. Al di là di questo, poi, il vuoto. Quello che si percepisce è lo sforzo del regista Ruben Fleischer nel rispettare le regole del genere. Il risultato è poco più che scolastico, perché la rigidità nella forma lo chiude in un noioso schematismo che indebolisce i fatti e il senso della storia.
Non che avrebbe dovuto stravolgere la grammatica del gangster movie. No, questo no. Avrebbe potuto, però, dirigere il suo film lasciando percepire allo spettatore che il vocabolario e gli esempi storici del genere erano, almeno un tempo, stati pane per i suoi denti. Invece, si nota il totale scollamento tra la mano di questo giovane regista e la storia scritta dai film padri fondatori di Gangster Squad.
Ne consegue che il pathos e l’emozione della storia si perdono totalmente nel manieristico di Fleischer. Che tra mani tagliate, cascate di pallottole e musi brutti lascia andare alla deriva il senso del film. Ovvero per combattere la criminalità, quella dura a morire, bisogna e in alcuni casi si deve, saper parlare la sua lingua. Input più o meno condivisibile. Il problema è che la presunta giustificazione ai modi duri di questi sei poliziotti, che per stanare Cohen hanno lasciato a casa i distintivi, si annacqua, perdendosi in un susseguirsi di scene in cui l’unica preoccupazione è capire chi sta sparando a chi.
Il perché lo sappiamo, ma il regista avrebbe dovuto, oltre che potuto, dare uno spessore completamente diverso ai personaggi. Che restano appesi come manichini, solo – e inspiegabilmente – con i volti noti di Sean Penn, Ryan Gosling – che ancora è all’ABC dell’introduzione alla recitazione – ed Emma Stone.
Alla fine delle due ore siamo oppressi da una domanda che vorremmo rivolgere a Sean Penn. Perché tu, mitico Sean Penn, tu che ci hai fatto ridere piangere e commuovere, ti sei lasciato trascinare in questa dis-avventura?