Aveva deciso di non praticare più il cinema, Ettore Scola. Ma ci ha ripensato per omaggiare il suo caro amico e in parte maestro Federico Fellini. Il suo omaggio, dal titolo Che strano chiamarsi Federico (citazione da una poesia di Federico Garcìa Lorca che apre la pellicola), è passato fuori concorso alla 70a Mostra del Cinema di Venezia, tra la commozione del presidente Napolitano, prima di uscire in sala distribuito da BIM. Un film che però lascia qualche dubbio nello spettatore.
Che strano chiamarsi Federico (dalleloquente sottotitolo Scola racconta Fellini) è un ricordo/ritratto di Federico Fellini, raccontato da Ettore Scola in occasione del ventennale della morte del regista.
Il loro incontro nei primi anni Cinquanta; le loro frequentazioni comuni; le loro visite di piacere sui set dei rispettivi film; i teatri di posa di Cinecittà, il Teatro 5 e altre analogie tra i due registi, che hanno cementato e fatto durare nel tempo la loro amicizia. Dal suo debutto nel 1939 come giovane disegnatore, al suo quinto Oscar nel 1993, anno del suo settantatreesimo e ultimo compleanno, Federico viene ricordato dallamico Ettore come un grande Pinocchio che, per fortuna, non è mai diventato un bambino perbene, al contrario del celebre burattino, tra le figure cardine del cinema del maestro riminese.
Ricostruito per intero al Teatro 5 di Cinecittà, tempio di Fellini in cui diresse ogni singola scena delle sue pellicole, il film è un lavoro inclassificabile non essendo documentario, né opera cinematografica convenzionale, forse un diario un po onirico e un po nostalgico che ricostruisce in modo volutamente scenico e teatrale gli episodi di vita che hanno legato i due artisti, riletto da Scola attraverso una parte scritta in sceneggiatura e unaltra più vicina al lavoro darchivio.
Il regista campano, ma romano dadozione, prende il materiale di repertorio audio o video e lo monta a integrazione di scenette meta-cinematografiche con cui rievoca la giovinezza prima e dopo la Seconda guerra mondiale, i rapporti con larte e la politica, lamore per la notte e le figure meno convenzionali della società (la lunga passeggiata notturna a chiacchierare con la prostituta): sincero e tenero quando racconta lintreccio psicologico tra i due maestri, la loro amicizia, Che strano chiamarsi Federico cede al luogo comune quando dovrebbe ricrearne o trasfigurarne il cinema, quando dovrebbe affrontare il lato artistico di Fellini, ridotto ai suoi fellinismi.
È un peccato, perché da due sensibilità artistiche così diverse – come fa notare la madre di Mastroianni a proposito del modo in cui di due autori ritraevano il figlio – sarebbe potuto nascere un connubio cinematograficamente forte, una riflessione “critica” stimolante per il pubblico, che invece è condotto dentro il già detto, come i nani, i maghi, il circo, ecc.
Che strano chiamarsi Federico quindi resta un film un po’ tronco e un po’ spaesato, che ha alcune belle intuizioni, come l’uso della vera voce del maestro per ricostruire dialoghi immaginari, ma anche una regia e attori ingessati, soprattutto nelle parti in bianco e nero, una carenza di immaginario che riduce la magia della scena a un teatrino e che si libera solo nel dirompente montaggio finale, la giostra felliniana, che riassume una carriera enorme e immortale. Un omaggio e un gesto dovuti e folgoranti, un’ancora di salvezza che ha il pregio di far venire la voglia allo spettatore di rivedere tutti i capolavori del maestro italiano più famoso nel mondo.