Diciamolo subito. Questo è un film che può dividere. Perché è divertente – estremamente divertente – ma volgare e, per i più moralisti, a tratti irriverente. Se si supera questa barriera e si accetta lidea di trascorrere due ore in compagnia di doppi sensi e altri fin troppo espliciti, allora garantiamo 110 minuti di risate e mai un secondo di noia o prevedibilità.
David (Jason Sudeikis) è il punto di partenza. Spacciatore incallito sin dai tempi del liceo, viene derubato da una babygang e si ritrova, più o meno di punto in bianco, nel baratro della disperazione. Per rimediare a questo inconveniente, il suo capo gli propone di andare in Messico e di trasportare negli Usa una partita di erba. Affare fatto. Ma David, il cui sogno nel cassetto non è di certo finire in galera con laccusa di trafficare droga da un confine allaltro, vede minacciata la serenità della sua vita, fatta di camicie a quadrettoni, t-shirt e zaino in spalla, tranquillamente molleggiata tra il divano e i suoi clienti. Per evitare di destare sospetti alla frontiera con il Messico, trova una soluzione a prova di bomba: fingersi un bravo padre di famiglia con al seguito moglie e figli.
La genialità, anzi la follia, di Come ti spaccio la famiglia (titolo che non rende giustizia a quello originare – We’re the Millers – né alla trama del film) sta nellaver preso limmagine della classica e media famiglia americana – quella vera e verace, quella che nasce e vive nei piccoli centri non di certo quella allargata e isterica delle grandi metropoli – mantenendone la patina esteriore, ma stravolgendola nel suo cuore. Perfetti, sorridenti e ingessati nellabbigliamento, i Miller sono la classica famigliola felice da staccionata bianca, grigliata domenicale, baseball per gli uomini e grembiule per le ragazze. Totalmente anticonvenzionale nellanimo, però, soprattutto perché, oltre a David spacciatore, anche gli altri membri dei Miller hanno vite strampalate e borderline. Rose (Jennifer Aniston) è una spogliarellista che non arriva a fine mese. Casey (Emma Roberts) è una punk scappata di casa e che vive di espedienti. Infine, Kenny (Will Poulter), abbandonato dalla madre e totalmente avulso dalla realtà.
Detto tutto questo, Come ti spaccio la famiglia avrebbe potuto essere un fiasco totale. Il regista Rawson Mashall Thurber, invece, è molto bravo nel realizzare una storia che risulta armoniosa nella trama e nell’amalgamare contrasti, scontri e incontri tra finzione e realtà. Senza che mai alcun elemento scada nell’artificiosità o appaia mal calibrato. Questo – il continuo faccia a faccia tra ciò che deve apparire e ciò che realmente è (la goffaggine dei quattro protagonisti nel vivere una circostanza che non si confà alle loro abitudini e al contempo l’estrema naturalezza con cui fingono di affrontare la loro nuova vita) – scandisce tempi comici perfetti. Ne risulta un ritmo che regge senza sosta o noia per ben due ore, sorretto da situazioni paradossali e a tratti surreali che si susseguono mantenendo alto il livello delle risate.
Certo, non lo si può negare, il regista prende un’istituzione classica e “sacra” e la scuote, crediamo, provocatoriamente. Anche perché non solo i Miller sono diversi da quello che sembrano, ma anche i nuovi amici – anche loro più o meno classica famiglia americana con camper al seguito – non sembrano totalmente a posto. Come a dire che ciascuno di noi, nell’apparente perfezione che la società richiede per essere accettati, in fondo in fondo ha delle stranezze che lo contraddistinguono. E che, alla fine, forse, lo rendono perfetto nella sua surrealtà.
Non crediamo che Come ti spaccio la famiglia intenda essere una critica alla società o voglia offendere la famiglia come generalmente concepita. Pensiamo, invece, cerchi di essere un divertente e leggero suggerimento. Dicendoci che le stranezze vanno accettate per quello che sono e osservate con tenerezza. Che, alla fine, “insieme è meglio”. Molto più facile affrontare le difficoltà, soprattutto in una società che tende all’isolamento. Che anche da ciò che si allontana dalla realtà comunemente condivisa e accettata può nascere qualcosa di buono. L’happy ending – che nel suo essere sfacciatamente classico rispetto a tutto il resto del film ristabilisce l’ordine delle cose – insegna.