Se in cima al botteghino italiano cè un film come Belle & Sebastien, che al di là della sua mediocrità sfrutta londa nostalgica dei cartoni animati giapponesi degli anni 80, non cè da stupirsi che qualcuno abbia pensato a rifare Robocop, poliziesco fantascientifico di Paul Verhoeven che nel 1987 creò un piccolo culto sfociato in una trilogia e in serie tv animate e non. Il temerario è José Padilha, noto per aver diretto il dittico brasiliano di Tropa de élite e presto passato alle fila hollywoodiane.
La trama è in tutto e per tutto simile alloriginale: un poliziotto coinvolto in un attentato mentre indagava su colleghi corrotti è in fin di vita, praticamente senza più arti. Gli viene in soccorso una multinazionale che per promuovere un progetto di difesa robotizzata costruisce intorno al poliziotto uno scheletro cibernetico che lo rende un superuomo dellordine. Ma lo scontro tra macchina e uomo non tarderà a farsi sentire.
Scritto da Nick Schenk, James Vanderbilt e Joshua Zetumer, Robocop è un poliziesco dazione che più che alla sottile ironia di Veroheven guarda alla frenesia di Greengrass e ai suoi risvolti seri e politici. Infatti, il cuore delloperazione condotta da Padilha è nel rendere espliciti i gangli politici, economici e morali del film di 25 anni fa, che covavano sotto la brace di un film poliziesco duro e violento; qui il regista brasiliano – perfetto per le affinità elettive con la materia – rende tutto evidente, dalla riflessione sullarrivismo delle avanguardie capitaliste americane al militarismo della società a stelle e strisce, dal limite sottile tra uomo e macchina in una società iper-tecnologica e iper-connessa alla definizione su cosa sia un uomo e cosa ne definisca lumanità.
Di sicuro molta più sostanza di quanta il cinema hollywoodiano contemporaneo faccia sentire al pubblico; eppure, tutta questa limpidezza, questa voglia di rendere esplicito il discorso lo rende anche più gretto, meno affascinante, più respingente. Tanto che Padilha da metà film in poi deve dimenticarsi tutto e lasciarsi andare alla violenza, allazione, alle sparatorie, alla raffica di immagini e acrobazie di tutti i film fracassoni.
Robocop è in questo senso un film che manca il proprio bersaglio, perché in realtà non sa qual è, non sa come porsi tra le esigenze del regista e quelle della produzione deludendo in buona parte quelle del pubblico: a Padilha manca la sintesi narrativa, il ritmo e la secchezza di tocco di Verhoeven e la sostituisce con le intenzioni concettuali e i milioni della produzione. Ma il film pare sbagliato fin dal cast.
Perché infatti scegliere un attore come Joel Kinnamon per fargli fare la mummia? Perché sprecare una presenza forte come quella di Abbie Cornish? E perché soprattutto sprecare facce come quelle di Samuel L. Jackson, Michael Keaton e Gary Oldman per ruoli tra il cameo e la macchietta? È anche in queste cadute di stile, in queste scelte basilari eppure clamorosamente sbagliate che si dipinge la crisi di un’industria, a cui solo la nostalgia e il ricordo può dare una mano.