Se non il più bello tra i film italiani della stagione (chi scrive ne preferisce altri, soprattutto Il giovane favoloso di Mario Martone), Anime nere è sicuramente il film italiano più premiato dell’anno: trionfatore assoluto dei David di Donatello dopo il successo critico veneziano con 9 premi, 3 Nastri d’argento, ecc. Il film di Francesco Munzi, il terzo di un’interessante e ancora promettente carriera, è sicuramente il fenomeno italiano della stagione e il film nostrano da recuperare in queste vacanze estive.
La storia è ambientata in un piccolo e ancestrale paesino calabrese, in cui le leggi della ‘ndrangheta regolano ancora le vite di una famiglia criminale, divisa tra Milano e le montagne, tra l’attività “imprenditoriale” e quella criminale, tra la faccia ripulita e le incrostazioni che presto torneranno alla luce.
Scritto da Munzi con Maurizio Braucci e Fabrizio Ruggirello, dall’omonimo romanzo di Giacomo Criaco, Anime nere è un nerissimo dramma familiare, conteso tra il respiro della saga criminale, lo sguardo allegorico sull’attualità e uno sguardo prossimo all’antropologia riguardo a luoghi, parole, tradizioni dell’entroterra calabro.
Munzi gioca sul ritmo e sul crescendo narrativo con grande e paziente calibro: si prende tempo per descrivere con precisione e competenza (ha vissuto per parecchio tempo ad Africo, luogo in cui è ambientata la storia) i personaggi e gli ambienti fisici e sociali, porta le correnti familiari e i conflitti a maturazione lenta, facendoli bruciare piano piano fino a un finale tragico nel senso classico del termine.
Ma in questo saggio di costruzione narrativa, Munzi non si dimentica delle questioni legate al territorio, delle notazioni cronachistiche con cui identifica lo status socio-economico, dell’importanza di uno sguardo freddo e mai glaciale, nel quale far trapelare, come un’emozione che si prova senza successo a contenere, il dolore di un morte che aleggia sul film come uno spettro.
Scegliendo attori poco noti, a eccezione di Barbora Bobulova, che non a caso interpreta un personaggio fuor d’acqua, Munzi decide di non puntare alla facile allure dello spettacolo e del divismo, ma vuole che gli attori incarnino pezzi di ambiente, che rappresentano non caratteri ma pilastri naturali di un racconto, rocce scavate nelle quali continuare a scavare. E lo fa con una certa maestria, traendo da loro e dal film un lavoro di tutto rispetto.