La rivelazione indipendente dell’anno, senza dubbio, tanto da scalare le vette dell’establishment e arrivare fino agli Oscar, collezionando 4 candidature (le principali: film, regia e sceneggiatura) e vincendo il premio per la protagonista. Room è anche la consacrazione di Lenny Abrahamson, regista irlandese amatissimo dal circuito indie dopo film come Garage e Frank.
Il film racconta di una madre e di un figlio chiusi in una stanza: lei è stata rapita molti anni prima e messa incinta dal suo rapitore. Il bambino è convinto che il mondo intero cominci e finisca in quelle quattro mura; ma la possibilità di liberarsi dopo sette anni metterà i due di fronte al concetto di nascita: come si viene al mondo quando ormai si è adulti. Come si nasce quando si hanno 7 anni? Come si scopre la realtà quando si è vissuti dentro una necessaria bugia?
L’autrice del romanzo di partenza, Emma Donaghue, sceneggia un film drammatico che sposta poco a poco il punto di vista dal bambino – come nel romanzo “Stanza, letto, armadio, specchio” (edito da Mondadori) – a quello della madre per cercare di descrivere visivamente il contrasto tra le diverse idee che ci facciamo del mondo e il modo in cui proviamo a farle combaciare.
Abrahamson parte da una stanza e dai tentativi dei due protagonisti di ridurre il mondo a quei pochi metri quadri, reinventandolo con delle tragiche e impossibili fantasie; poi però si apre, raccontando la liberazione (in una sequenza magnifica, giocata sulla visione parziale che si apre fino a riempire lo schermo, come se crescere fosse poter davvero vedere le immagini per intero, come se la visione fosse anche comprensione) e soprattutto la rinascita – in senso letterale, nascita per la seconda volta – tanto della mamma quanto del figlio, anzi più della prima, costretta a confrontarsi con le strutture sociali oppressive più di una gabbia.
Una fiaba nera che diventa un bellissimo racconto di formazione in cui le cose che a chiunque paiono banali assumono il loro significato primitivo: vedere, sentire, toccare. Capire. E lo spazio e il tempo diventano elementi fondamentali della comprensione e del cinema (come nella prima scena in ospedale) per un film diviso in due parti diametralmente opposte che Abrahamson separa giustamente attraverso un’intelligenza registica fortissima capace di modellare gli sguardi, gli angoli di ripresa, di far sentire il senso della scoperta anche allo spettatore, puntando in modo quasi sfacciato sulle emozioni, ma sapendole giostrare con perizia e respiro che sa uscire dagli spazi angusti e rendere chiusi quelli più aperti.
Probabilmente il film passerà alla storia per aver lanciato Brie Larson dall’anonimato al premio Oscar e per aver mostrato il precoce talento del piccolo Jacob Tremblay, ma tra i motivi per cui Room merita di essere visto c’è l’attestato di talento e fibra registica di Abrahamson, capace di costruire un’opera in grado di farsi strada tra il pubblico, ai festival, in giro per il mondo (in Italia è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma), con la forza schietta dell’emotività e la capacità di metterla in scena. Intelligenza al servizio dell’emozione popolare.