È sempre stata dura essere “figli di”. Intendiamoci, ne esistono due categorie: quelli che glielo mandi come un insulto e quelli che lo sono di fatto, veramente. E noi vogliamo parlare proprio di loro. Provate a mettervi per un attimo nei panni del figlio di Alba Parietti: fin dall’asilo, tutti, ma proprio tutti (compagni di classe, maestri, professori, bidelli, genitori dei compagni di classe, persino genitori di prof e bidelli) a chiedergli una copia del calendario della mamma, manco lavorasse in un’agenzia di assicurazioni o in banca…
Oppure prendete Sasha Obama, figlia minore del presidente degli Stati Uniti. In questi mesi estivi ha trovato lavoro presso un take away di pesce nell’isola di Martha’s Vineyard (Massachussetts). Ogni mattina arriva accompagnata da sei guardie del corpo. A protezione della sua incolumità? Non solo. La quindicenne Sasha ha passato metà della sua esistenza tra gli agi della Casa Bianca. Servita e riverita, come si conviene alla figlia del capo di Stato più potente del mondo. Mai spostato una posata. Mai portato la cartella con i libri. Mai dovuto preoccuparsi di alcunché. E ora? Come se la cava quando deve prendere diligentemente nota delle ordinazioni di una simpatica tavolata multiculti di una dozzina di persone? Niente paura. Sei bodyguard sono pronti ad aiutarla in questo duro lavoro, ciascuno con una propria mansione: dalla scrittura dell’ordinazione alla verifica della corretta trascrizione (in questo, senza offesa per l’Arma, si comportano come i Carabinieri nelle barzellette italiane…), dalla consegna della comanda in cucina al controllo del personale in camice da cuoco, dal riaccompagnamento di Sasha al tavolo con i piatti fumanti e pronti per la degustazione. Senza dimenticare il bodyguard più grosso, addetto al controllo qualità, cosicché i clienti più esigenti, se insoddisfatti della bontà del cibo servito, non abbiano a prendersela con la povera Sasha, tutt’al più manifestino, in modo urbano e con toni cortesi, il loro disappunto.
È difficile sostenere che i “figli di” vip non siano baciati dalla sorte nel loro legame di consanguineità. Ma quanti “figli di” sono a noi assolutamente sconosciuti? Davvero tanti! Come si chiamava, per esempio, il figlio di Renzo e Lucia, nessuno lo sa. Sposatisi alla fine del romanzo, quando lui nemmeno era nato, ha fatto perdere le tracce di sé ancora prima di farle trovare. Il figlio di Kant, invece, fu tenuto così ai margini dal padre Emmanuel, da meritarsi l’epiteto di “Kantuccio” E senza neppure il vin santo a consolarlo! Mentre il primogenito di Cristoforo Colombo – esuberante nella vita, eccessivo nei modi, così facile agli entusiasmi da approdare in ogni porto nuovo al grido di “Papà, qui abbiamo scoperto l’America!” – era apostrofato dal famoso genitore “Taci, e rema”.
Sulle difficoltà a essere “figli di”, il cantautore Davide van de Sfroos qualche anno fa aveva scritto una canzone, “Il figlio di Guglielmo Tell”: “Sun’t el fiöö del Guglielmo Tell, che l’era un gran òmm / però de me, i geent, i se regòrden gnanca el nòmm / e pensà che sèri me, quel fiöö cun la poma in söe la cràpa / e pudèvi mea tremà e pregàvi…’Sperèmm che la ciàpa’ (Sono il figlio di Guglielmo Tell, che era un grande uomo / e pensare che ero io quel bambino con la mela sulla testa / e non potevo certo tremare e pregavo… ‘Speriamo che la prenda’).
La memoria allora corre al corso della storia. Come non pensare al figlio di Muzio Scevola, quel giovane aristocratico, citato in tutti i manuali scolastici, che, propostosi di uccidere con una pugnalata Porsenna, comandante etrusco che cingeva d’assedio Roma, entrò nottetempo nell’accampamento nemico, uccidendo per errore un’altra persona; scoperto, catturato e portato al cospetto di Porsenna, il giovane Muzio non batté ciglio davanti al comandante etrusco: “Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore”. Così mise la sua mano destra in un braciere e non la tolse fino a che non fu completamente consumata. Segnati da quell’episodio, padre e figlio dovettero sempre farci i conti. Muzio non lesinava con il piccolo Scevola ordini sempre più perentori con il passare del tempo: “Non stare lì impalato, dammi una mano!”.
Molti tra noi ricorderanno certo Attilio Regolo, politico e militare romano che nella Prima guerra punica, inviato da Cartagine a Roma per convincere i suoi concittadini ad arrendersi, finì i suoi giorni rotolando giù da una collina dentro una botte irta di chiodi. Ciò che la storia non racconta è che il figlio crebbe timido e riservato, giovane orfano pieno di dubbi sulle prospettive della propria vita, memore delle parole del padre, il cui ricordo spesso lo faceva rabbrividire: “Nun te preoccupà, con me stai in ‘na bote de fero!”.
È risaputo che le difficoltà dei figli spesso nascano dalle capacità universalmente riconosciute dei padri. Si narra che Omero fosse un padre così ossessivo con i figli, Radio e Ulna, da far esclamare loro più e più volte: “Sei proprio un osso, padre!”. Ma Radio preferì celare i suoi legami con il padre (si fece chiamare con il nome, assai poco grecheggiante, di Marconi) e Ulna non si sposò mai, rimanendo scapola.
Una citazione merita il figlio di Leonardo da Vinci. Per quanto s’affannasse a studiare, inventare o realizzare per stupire suo padre, non venne mai considerato dal suo vecchio. “Guarda papà! Ho inventato l’automobile!… Ho ideato l’elicottero! Ho concepito il paracadute!”. Data un’occhiata tutt’altro che interessata allo schizzo sul foglio, immancabile da papà Leonardo risuonava la risposta: “Codesto l’ho già fatto io, caro”.
Al contrario, Pablo Picasso sfruttò a piene mani gli scarabocchi di suo figlio, Casso, che si limitava a disegnare facce asimmetriche e scomposte, tuttavia originali, non avendo mai imparato a fare un autoritratto classico (infatti i critici dell’arte ricordano che “non sapeva disegnare un Casso”).
Il finale di questa storia lascia intravedere un barlume di speranza per i “figli di”: esiste nella storia un solo caso tale per cui si possa ricordare il figlio prima del padre. Stiamo parlando di Johann Sebastian Bach. Infatti di lui si dice: “È Bach di Ginepr”.