Il regista milanese Silvio Soldini ritorna a un genere a lui caro e già affrontato nel corso della sua brillante carriera: quello del documentario. I protagonisti de Il fiume ha sempre ragione sono Alberto Casiraghy e Josef Weiss, che praticano l’arte della tipografia, contro le logiche della modernità che sempre più tendono a mettere da parte il lavoro manuale, a favore di una produzione seriale e priva di originalità. Invece è proprio il lavoro manuale a cui i due artisti ripresi da Soldini intendono dare forza e dignità. Scatta immediato il riferimento alla tradizione: alla stampa a caratteri mobili di Gutenberg del XV secolo, dove ogni lettera, ogni singolo carattere sono intrisi di un profondo senso storico e culturale. Il lavoro di Soldini ci accompagna nelle case e nelle vite dei due protagonisti, di cui impariamo a conoscere idee e personalità. Alberto Casiraghy produce libri dalla fattura molto particolare, per autori che intendono autopubblicarsi; scrive inoltre poesie ed aforismi, uno dei quali è diventato il titolo del film. La sua abitazione è ricca di fotografie, manoscritti, memorie di viaggi in luoghi lontani, libri e disegni, in un dialogo ininterrotto con i ricordi e il passato. Casiraghy lavora nel suo ufficio di Osnago utilizzando un autentico gioiello della tradizione: una stampante meccanica a caratteri mobili. L’atelier di Josef Weiss ha sede a Mendrisio, nello svizzero Canton Ticino ed è caratterizzato da un’atmosfera solenne, quasi sacrale, che ha spinto Casiraghy a definirlo come un convento laico: Weiss è restauratore di libri e svolge il suo lavoro con dedizione e infinita pazienza, intessendo, come l’altro protagonista del documentario, un proficuo dialogo con la tradizione.
Lo sguardo di Soldini sui due artisti è attento a ogni più piccolo dettaglio: segue in silenzio il loro operare quotidiano, inquadrandone le mani, la carta, il cartone, le cuciture dei libri. Nessun particolare viene trascurato: anche la colonna sonora, fatta dei rumori delle macchine tipografiche e dei fruscii dei fogli di carta che si piegano, è coerente con tutto il resto. Grazie a questo film, Soldini conferma ancora una volta la sua bravura, non solo come regista, ma anche come documentarista, esaltando i ritmi lenti e la bellezza del lavoro artigianale, in un inno agli aspetti più preziosi e nascosti della natura e del lavoro umano. Il documentario è basato anche su quest’atmosfera d’incontro e di complicità tra il regista e gli artisti, che a loro volta dialogano e comunicano tra di loro. Durante il film ciascuno dei protagonisti entra nella bottega dell’altro, la esplora e ne trae ispirazione: immersi nel loro lavoro, Casiraghy e Weiss si confidano le loro debolezze, le loro mancanze, ma anche il senso di profonda felicità per aver dedicato la vita alla passione che li accomuna. Come suggello finale di quest’amicizia, alla fine del film Josef Weiss dona a Casiraghy un piccolo libro, molto singolare: un esemplare di un suo Dîvân, parte di una collana di libri simili nella struttura ad una cartolina, costituita da un foglio piegato a fisarmonica, dove è possibile disegnare e scrivere pensieri.