Non si vorrebbe cadere di nuovo nel luogo comune o nella frase fatta, ma il videogioco al cinema non funziona. O meglio se è vero che il cinema utilizza stilemi visivi del videogame, che a sua volta utilizza struttura ed elementi di messinscena e scrittura cinematografici, quando un film prova a trasportare un videogioco di solito fallisce. Assassin’s Creed è uno dei fallimenti più sonori, soprattutto perché partiva da un universo videoludico molto ricco e in cui la compenetrazione tra passato e presente poteva dare frutti cinematografici molto gustosi.
Diretto da Justin Kurzel – passato a Cannes con il molto discutibile Macbeth di cui riprende due protagonisti, Michael Fassbender e Marion Cotillard -, il film racconta di un condannato a morte, Callum Lynch, salvato da una società segreta che vuole scavare nel suo passato: quello recente – il padre ha ucciso la madre per motivi misteriosi – e quello remoto, visto che l’uomo è discendente della setta degli Assassini che proteggevano la Mela dell’Eden dai templari. Ma una volta scoperta la verità su se stesso, Callum dovrà decidere se stare con gli Assassini e il suo passato o con i Templari.
Scritto da Michael Lesslie, Adam Cooper e Bill Collage, a partire dall’universo Ubisoft qui adattato in una storia e personaggi originali, Assassin’s Creed è un action-movie fanta-storico che racconta la Storia come un romanzo fantasy e il presente come una science-fiction “distopica”, ma che non riesce a trovare il giusto modo per legare le due cose (a differenza dei videogame), risultando un patchwork di intenzioni e copiature.
La colpa di tutto, al di là di un progetto raffazzonato fin da principio, è in gran parte del regista: fin dalla seconda inquadratura Kurzel ci tiene a mettere in mostra il suo stile presuntuoso, fatto di indigesta macchina a mano, frenesia e colori virati che non si sposano invece con l’estetica digitale del film e con l’impianto stesso del prodotto di cui non viene mai catturato lo spirito, relegando il passato allo sfondo di 3 o 4 scene d’azione (molto inferiori allo standard: si prenda, per esempio, invece la riuscita in questo senso di un film come Prince of Persia, anche a livello di uso del parkour) senza farlo diventare cuore dell’intreccio e il presente a una tramina che orecchia il videogioco e si limita a reinventare l’Animus come fossimo ancora alla realtà virtuale degli anni ’90.
È un film vecchio, fermo e statico, incatenato da una cornice filosofica e meta-linguistica molto poco approfondita e in cui lo spettacolo – visivamente insoddisfacente: basti guardare l’inseguimento a cavallo accelerato in post-produzione con effetto comico – è bloccato dal meccanismo macchinoso e dalle ambizioni molto mal gestite da Kurzel.
Le armi per rendere la due ore di visione perlomeno piacevoli dentro un intrattenimento di superficie potrebbero essere nel cast: e in effetti Fassbender, nei limiti di un personaggio striminzito, s’impegna fisicamente e in quantità di fascino. Ma Marion Cotillard tutta occhioni e finta seduzione, al nadir di una carriera, e Jeremy Irons, quasi imbambolato e tronfio come ai tempi di Dungeons & Dragons, fanno tramontare anche l’idea del gioco d’attori. Tanto vale tornare al gioco su consolle o computer.