È in corso in questi giorni l’edizione numero 70 del Festival Cinematografico di Cannes. Con l’occasione celebriamo il cinquantesimo anniversario della Palma d’Oro a Blow Up di Michelangelo Antonioni, uno dei nostri mostri sacri. Uscito in prima visone mondiale nel dicembre 1966 in Usa, paese di co-produzione, Blow Up è il solo film di Antonioni ad avere avuto un significativo successo di pubblico, a motivo soprattutto della sua ambientazione londinese negli anni della swinging London, del boom mediatico dei Beatles e delle modelle in stile Twiggy. Blow Up è anche, probabilmente, il film di Antonioni più famoso nel mondo, e il più premiato, associato per lunghi anni all’idea stessa di cinema moderno, identificazione invero un po’ limitante, che peraltro ha accompagnato l’opera di Antonioni fin dalla trilogia cosiddetta “dell’incomunicabilità” (L’Avventura, 1960; La Notte, 1961; L’Eclisse, 1962). Ma sotto la superficie fascinosa questo film rivela un testo complesso, che – appunto – deve la sua fortuna di pubblico agli elementi più immediati, essendo invece incentrato su una riflessione quasi filosofica circa il valore di verità dell’immagine cinematografica.
Ispirato al racconto “Le Bave del Diavolo” dello scrittore argentino Julio Cortàzar (1914-84), sceneggiato dal regista con il fidato Tonino Guerra, il film di Antonioni racconta, tra molti silenzi e azioni sospese, di un fotografo di moda (David Hemmings) che, rubando degli scatti a una giovane donna (Vanessa Redgrave) mentre amoreggia con un uomo maturo in un parco, si accorge, dagli ingrandimenti delle foto che, nascosta tra le fronde, c’è una pistola, rivelata dallo sguardo della donna stessa. Tornato nel parco, ma senza macchina fotografica, scopre un cadavere nascosto tra le stesse fronde. Cerca allora un amico cui raccontare il fatto, ma si perde nella Londra notturna, ora sulle tracce di una donna che sembra quella del parco, scorta per caso, poi in un locale live rock e infine a una festa con modelle e marijuana. Il mattino seguente torna al parco, ma solo per constatare la scomparsa del cadavere. Il film termina con il fotografo che assiste a una partita di tennis immaginaria, mimata da ragazzi in costumi clowneschi.
L’idea di utilizzare il procedimento fotografico dell’ingrandimento per arrivare a una verità più profonda contenuta nelle immagini, fulcro del racconto di Cortàzar, ispira ad Antonioni, oltre al soggetto di Blow Up, anche una riflessione sull’impossibilità del cinema di asserire il vero, nonché sui rapporti complessi tra arte (cinematografica, in questo caso) e realtà, tra ciò che si percepisce visivamente e ciò che si può comprendere. Lo stesso Antonioni chiarì in parte il senso del film affermando che “il fotografo di Blow Up, che non è un filosofo, vuole vedere le cose più da vicino. Ma accade che, ingrandendo troppo, l’oggetto si decomponga e sparisca. Di conseguenza c’è un momento in cui cogliamo la realtà, ma è un momento che passa”.
Blow up nel gergo fotografico anglosassone significa “ingrandimento”. Se ciò che appare in immagine è per sua natura veritiero, poiché prodotto da uno strumento “neutro” che per forza riprende la realtà per come la vede, per come gli appare senza filtri e senza inganni, allora ingrandire un’immagine significa coglierne il contenuto di verità ancora meglio. Il film smaschera questa rassicurante illusione. Il ragionamento potrebbe anche filare, se non fosse che esso contiene in sé, in modo evidente, il suo opposto: proprio perché l’immagine è frutto di un meccanismo, sono mille i modi nei quali questo frutto può essere manipolato; anche perché è la fotografia stessa, nel suo procedimento tecnico, a essere simulacro della realtà. Quindi: l’immagine, fotografica e cinematografica, riproduce la realtà/verità ipso facto oppure ha come referente primario solamente se stessa?
Per cogliere sinteticamente i termini della questione, basti ricordare un simpatico aneddoto attribuito a Pablo Picasso. Pare infatti che il celebre pittore, criticato da un signore che gli mostrò la foto della moglie come esempio di immagine realistica, abbia ribattuto: “allora vostra moglie è alta cinque centimetri, bidimensionale, senza braccia né gambe, e senza colori tranne sfumature di grigio?”.
Il cinema moderno è caratterizzato dalla narrazione debole, che sfrutta, anche in senso tematico, la polifonia di significati che l’immagine, sottratta ai doveri del racconto classico e del montaggio trasparente e continuo, è più libera di esprimere, di esplorare, di evocare. Questo film di Antonioni, pur non essendo un capolavoro assoluto, ne è uno splendido esempio. Arrivò a essere quasi un cult movie, apprezzato specialmente negli ambienti culturali alla moda – di allora – della vecchia Europa. Oggi un film simile, con scarno sviluppo narrativo e un spettro di significati di non immediata comprensione, ma comunque di grandissimo fascino visivo, a malapena troverebbe un finanziatore, senz’altro preoccupato del riscontro al botteghino. Notevoli le differenze con l’epoca strettamente contemporanea, che chiamano una riflessione sulla mutazione, quasi di portata antropologica, che il pubblico ha subito negli anni, a forza di vedere reality dementi e serie tv reiterate all’estremo. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano, limitiamoci a ricordare Blow Up come uno dei grandi film del cinema italiano nel pieno del suo periodo d’oro (il decennio Sessanta del Novecento), giustamente premiato come il migliore alla kermesse francese dell’ormai, ahimè, lontano 1967.