Un Pupi Avati che torna indietro nel tempo per spiegarci cosa spinge ancora oggi un 79enne come lui a fare cinema con quel lato nostalgico-malinconico che contraddistingue i suoi lavori, senza mai però chiudere del tutto la “serranda della realtà” e della speranza. Il rapporto con la moglie che da 54 anni lo accompagna in ogni sfida personale e pubblica è uno di quegli elementi che consente al grande regista di poter ritenere per davvero la salvezza dell’anima nostra quel gesto d’amore che è il rapporto con un altro che ci ama e ci vuole bene. «Mi sono sentito inadeguato e ho cercato di tenerla con me sempre», spiega della moglie in una intervista sul quotidiano cartaceo di Repubblica. «Malgrado non ci sia giorno che non sia stato segnato da lacerazioni, il legame ha resistito»; addirittura, rilancia ancora Pupi Avati, «dopo 54 anni è il mio hard disk, ha tutti i file, nei suoi occhi c’è il Pupi ragazzetto che va a suonare con Lucio Dalla a Bologna; c’è il ringraziamento in inglese agli Oscar che non mi è mai servito; non ci sono altri occhi dove sia custodito e quegli occhi dovevano essere belli». Non solo l’amore, ma anche la fede e la malinconica amicizia che strinse fin da giovane con il grande cantautore di “Piazza Grande”: «Con Dalla andavamo in birreria e spendevamo 50 lire di tonno e fagioli. Sognavamo il successo, Lucio ha fatto un viaggio siderale». Per il regista quasi invidioso di quella bravura di Lucio, in realtà quel “fallimento” ha riaperto una carriera che ci ha consegnato opere e titoli fantastici: «volevo raccontare chi ero con un clarinetto, non mi amava però, mentre amava Lucio. Non avevo capito che il cinema potesse darmi grandi opportunità, sono andato alla ricerca del mio Graal». Chiudendo, Avati sottolinea quanto ha fatto al cinema in tutti questi anni, «anche se non so se mi abbia restituito altrettanto..».
“SOLO L’AMORE CI SALVA”
Un film per la tv, non per il cinema, eppure con tutta la magia e la freschezza di chi a 79 anni vuole ancora stupirsi davanti alle storie della realtà umana: Pupi Avati questa sera su Rai1 porta in scena “Il fulgore di Dony” con una scelta “anacronistica” di portare sul piccolo schermo una storia incentrata non sull’impavido egoismo ma sulla fragilità di un rapporto con un altro totalmente alto e totalmente complesso. Un film con al centro la “misericordia” di una ragazza “media” in tutto che dona però tutta se stessa al ragazzo che ama colpito da un grave incidente che ne limita progressivamente le facoltà cognitive. «In tempo di amore esibito e consumato, mi interessa la ricerca dell’assoluta, la sacralità che contiene la follia», spiega l’anziano regista a Repubblica questa mattina. «Dony non è la più bella di Bologna, nella classifica della scuola è a metà, è a metà di tutto. Ma all’improvviso diventa sfolgorante, trova il senso del suo essere». Secondo Pupi Avati il senso di noi stessi lo troviamo sempre nell’altro, proprio come Dony nel film lo trova in Marco: come racconta ancora a Silvia Fumarola su Rep, «Il fulgore di Dony esplora la cultura dello scarto a cui tanto tiene il Pontefice. Una società dove si premia solo chi è assertivo e ce l’ha fatta non funziona. Qui c’è uno sguardo molto amorevole nei riguardi di chi non ce l’ha fatta e questo rende il film scandalo. Il protagonista è bella e la bellezza rende inadeguati», spiega Pupi.
“IL FULGORE DI DONY”: IL FILM SULLE BEATITUDINI
Come ha spiegato giorni fa in sede di presentazione del film per la tv, il regista italiano ha illustrato un concerto assai poco “sexy” per il cinema attuale e per la stessa cultura di oggi, eppure così centrale e determinante per passare da una “fiction” ad un quadro di vita reale. «La sfida del film è rendere vera, credibile, azzardare addirittura che diventi condivisibile la scelta di Dony. Una scelta probabilmente anacronistica, contro tutto e tutti, in un presente che pare premiare solo l’egoismo. Non sapremo mai se Dony Chesi abbia letto il discorso della montagna del Vangelo di Matteo o abbia ascoltato le sollecitazioni di Papa Francesco, tuttavia in quel “beati i misericordiosi perchè troveranno misericordia c’è tutto il suo fulgore». A chi chiede al grande Pupi Avati se tutto quanto racconta non sia impregnato di fede, il regista “fulgido” risponde: «io voglio avere fede e sono dispersamente incredulo. Vado in Chiesa a pregare Dio di esistere, non più fede negli esseri umani. Per questo ho voluto raccontare di Dony», spiega ancora su Repubblica, prima di concludere «lei è la donna più meravigliosa che posso immaginare. Potrebbe evitare il dolore ma lo sceglie, spero esistano tante altre Dony».