Inarrestabile, instancabile, attivissimo fisicamente e spiritualmente. Prima che il suo apporto alla storia del cinema e alla purezza dell’immagine, di Ermanno Olmi – scomparso all’età di 86 anni – piace ricordare la vitalità artistica e l’intraprendenza davvero giovane di un percorso cominciato nel 1953 con cortometraggi documentari e proseguito fino a oggi, usando tutti mezzi, le tecnologie, i formati a disposizione.
Olmi, nato a Bergamo nel ’31, come Godard ha indefessamente sperimentato il linguaggio e le sue capacità comunicative, ma al contrario del maestro svizzero non lo ha fatto con intenti ideologici o provocatori, perché la sua missione era quella di trovare lo spirito e la grazia, se si vuole chiamiamoli Dio, nell’immagine, nel racconto e attraverso di essi nelle persone.
Che sia l’Italia rurale e contadina o l’urbanesimo civilizzato, il passato e la storia in tutte le sue belliche forme o il presente sempre meno intellegibile, Olmi ha raccontato cosa c’è oltre l’uomo, la sua metafisica potremmo dire e e modalità di espressione e riflessione intima partendo però dai suoi gesti, dalle sue parole, dalla concretezza del suo essere: fin dal suo esordio nel lungometraggio (e ancora prima, nei cortometraggi industriali con cui si è fatto le ossa e lo sguardo) Il tempo si è fermato del 1958, Olmi si attacca ai movimenti e ai gesti dei protagonisti, ai loro comportamenti, al modo in cui interagiscono con l’ambiente e tra di loro dando agli eventi e alla drammaturgia un valore secondario. Quello che conta nel cinema di Olmi è l’umanità colta in momenti apparentemente minimi, quotidiani: la diga del citato film, la grande campagna del suo film più celebre L’albero degli zoccoli, ma anche l’azienda milanese de Il posto.
Il presente per Olmi è un mistero e l’unico modo per sondarlo è trasfigurarlo nel tempo e nello spazio, attraverso i luoghi della natura che gli ricordano l’infanzia e la giovinezza e che lo riportano a una Storia lontana o recente oppure a un modo di vita che si perde lontano dalla contemporaneità, come nei recenti Centochiodi e Il villaggio di cartone. Il suo cinema è concretissimo nell’amore per l’uomo e la natura, ma anche astratto per quello che riguarda la forma, il montaggio, la costruzione di un tempo filmico fatto più per lo spirito che per la mente: con gli anni la ricerca di Olmi come persona e come regista è diventata la ricerca di un altrove, di un luogo trascendente da trovare sulla Terra, tra le persone, tra la terra e i suoi frutti, tra la solidarietà e il bisogno di una comunità che superi gli orrori (la truppa de Il mestiere delle armi, i soldati di Torneranno i prati).
Eppure il cinema di Olmi non è mai davvero etichettabile, il suo continuo bisogno di concentrazione, di precisione e di apertura al mondo e ai suoi problemi lo rende cangiante, ha condotto a quella vitalità movimentata nelle forme e rigorosa nello sguardo di cui si parlava all’inizio, che dietro a corti e lunghi (anche lunghissimi, come il sottovalutato e bellissimo Camminacammina), documentari spirituali – come l’ultimo film Vedete, sono uno di voi dedicato al cardinal Martini – e avventure dei pirati (Cantando dietro i paraventi, bellissima seconda pala del dittico in costume composto con Il mestiere delle armi) cela il bisogno di sentire l’uomo, di comprenderlo. E soprattutto di abbracciarlo.
Perché il cinema di Olmi, puro, lucido, denso di suggestioni e riflessi come solo le storie vere degli uomini possono essere, è ampio e onesto, fiducioso anche quando intriso di dolore o incertezza, mai pacificato ma mai cinico. Vicino alla serenità e a un’idea di grazia che non viene dall’alto, ma che in alto – anche nella storia del cinema – è arrivata.