C’era una volta, dietro la macchina da presa… John Frankenheimer (1930-2002). Newyorkese, nato e cresciuto nel borough del Queens, il suo primissimo sogno nel cassetto pare sia quello di diventare tennista professionista. Ma tra le passioni giovanili c’è spazio anche per il grande schermo e, nonostante abbia già optato per una carriera come attore, durante il servizio militare non tarda molto a capire quanto bene invece se la cavi con una cinepresa in mano.
Nel 1953 ha quindi inizio la sua attività alla Cbs in qualità di assistente regista, cioè come operatore di ripresa: la gavetta è di quelle giuste, visto che tra quelli con cui gli capita di lavorare c’è pure un certo Sidney Lumet.
L’ovvio passo successivo è rappresentato dall’approdo alla regia (dal vivo) vera e propria. Occorre qui menzionare il fatto che in questo periodo, nella stragrande maggioranza dei casi, la cinepresa del piccolo schermo è fortemente statica, elemento che riflette la formazione teatrale di moltissima parte dei registi allora attivi in televisione: Frankenheimer è invece uno dei primi a utilizzare più angolazioni di ripresa, una telecamera in movimento, un montaggio rapido e primi piani a effetto.
Tra il 1954 e il 1960 arriva così a dirigere più di centocinquanta programmi e spettacoli in diretta: forte di questo bagaglio sia tecnico che artistico, esordisce al cinema nel 1957 con Colpevole innocente – anche se per nulla convinto sia dalla scelta che dall’esito: non è infatti abituato a lavorare con una sola macchina da presa! –, seguito da Il giardino della violenza (1961), con la già affermata star Burt Lancaster, che dirige poi in L’uomo di Alcatraz (1962), Sette giorni a maggio e Il treno (entrambi del 1964), sue prime pellicole tra le quali non va dimenticato anche Va’ e uccidi (1962), stavolta con Frank Sinatra.
Secondo l’incipit di un articolo di John Thomas sul numero dell’inverno 1965-66 di “Film Quarterly”, «[a]lcuni registi commerciali sono senza volto; altri assumono una maschera. Ma c’è un terzo tipo: il regista che scopre che la maschera non funziona e i cui film sono una lotta per rimuoverla. I sette film di John Frankenheimer sono un esempio di quella difficile lotta. […] [D]ove la ricerca è più intensa, dove il volto originale comincia a trasparire, c’è un’emozione raramente eguagliata nel cinema americano recente».
Nonostante queste promettenti premesse, nel prosieguo dell’attività sul grande schermo il regista fatica a mantenere i livelli toccati agli esordi, diventando un abile e solido artigiano specializzato in film d’azione di gran fattura, il primo fra i quali è il celebre Grand Prix (1966).
Si giunge così d’un balzo alla metà degli anni Novanta, un decennio che pare portarlo in sordina verso le settanta primavere e in cui la sua stella risulta ormai appannata, dal solo punto di vista cinematografico, dato che le cose gli vanno d’altro canto a gonfie vele sulle televisioni via cavo (Hbo e Tnt, per le quali firma rispettivamente – tra le altre – la produzione e la regia delle biografie di Chico Mendez e George Wallace), un felice periodo creativo gratificato da ben quattro Emmy Awards.
Ed è così che, giusto vent’anni fa, alla 55ª edizione del Festival di Venezia, presentato fuori concorso nella ricchissima sezione “Notti e stelle”, dal cilindro di questo vecchio leone spunta Ronin, che vanta un cast internazionale d’eccezione capitanato da Robert De Niro e composto da Jean Reno, Natascha McElhone, Stellan Skarsgård, Sean Bean, Skipp Sudduth, Michael Lonsdale e Jonathan Pryce.
Come scrive Morando Morandini, in occasione dell’uscita del film nelle sale italiane, il regista «si toglie lo sfizio di aprire un non-stop action thriller con una lenta sequenza d’atmosfera […] in cui non succede nulla. È vero che due interminabili inseguimenti d’auto (la sua specialità…) son troppi, ma che bella galleria di personaggi e che sapiente organizzazione dello spazio. Data pure la loro parte di merito alla sceneggiatura del duo Zeik e Weisz, dietro il quale si cela David Mamet, alle capacità organizzative del produttore Frank Mancuso Jr., agli attori (De Niro è grande), ma il risultato è quello: un film azzeccato».
L’ormai quasi sessantanovenne, tradizionalista Frankenheimer, a Venezia per presentare la pellicola, pare riemerso chissà da dove ed entrato in una sorta di seconda giovinezza (di celluloide ovviamente): «Non sopporto gli action-movie! Soprattutto quelli di questi nuovi registi di Hong Kong, pieni di scene assurde in cui l’eroe spara una volta e cadono a terra una decina di cattivi. Se c’è una cosa che ho cercato di preservare in Ronin è il realismo. […] Su questo mi sono impuntato: non ho voluto “sporcare” in alcun modo il realismo del film. Non c’è alcuna rielaborazione digitale, sono effetti meccanici, identici a quelli che usai più di trent’anni fa in Grand Prix. Gli inseguimenti automobilistici, perciò, sono autentici [realizzati e filmati anche con l’ausilio di automobili parziali, “microset” sul cofano, dolly su moto a quattro ruote eccetera, ndr]. In auto ci sono gli stunt-men, ovviamente, ma anche Jean Reno e Robert De Niro [assistiti da tre piloti professionisti veterani di Le Mans, vista la velocità che poteva toccare i 160 km orari… ndr]».
Un film old-fashioned insieme asciutto e spettacolare, caratterizzato da uno stile classico e coinvolgente, impreziosito da essenziali tocchi di eleganza vecchio stampo, attraversato da un sottile ma palpabile velo di malinconia, con più di una sequenza da antologia e assecondato da suggestive locations. Quella destinata a diventare la sag(r)a di Fast and Furious (2001-17) è davvero ormai dietro l’angolo, ma francamente li separa un abisso.