Ricordiamo oggi, in attesa della serata conclusiva della 75esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, il film La Leggenda del Santo Bevitore del compianto Ermanno Olmi, annunciato vincitore del Leone d’Oro nell’edizione del 1988. Erano allora ventidue anni che un film italiano non vinceva a Venezia (da La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, 1966): la pellicola diafana e intimista di Olmi, sceneggiata con l’amico critico Tullio Kezich e prodotta da una cordata italo-francese, altro non attendeva che il primo premio. La giuria, presieduta da Sergio Leone, si adeguò educatamente al clima generale che rubricava il film di Olmi nel novero dei capolavori.
Considerato l’argomento etico-religioso, quasi escatologico, e vista la recente scomparsa di Olmi, il ricordo del film sconfina in quello – affettuoso – del suo illuminato autore. Pochi registi hanno saputo affrontare al cinema i temi del sacro, del divino e del trascendente nella vita quotidiana con la stessa profondità, leggerezza e umana saggezza dimostrate in varie occasioni dal cineasta bergamasco. Anche per questo Olmi è stato un personaggio di primo piano in quell’arte varia che si chiama cinematografo, il suo approccio di fondo del fare cinema per il cinema – e non per il mercato o il produttore – rimane merce rara nel panorama nazionale come in quello mondiale.
La Leggenda del Santo Bevitore, salvo qualche residuo dubbio sul suo effettivo valore artistico, rientra tra i migliori esiti di tale approccio. Il film è tratto dall’omonimo racconto lungo – o romanzo breve – dell’ebreo tedesco Joseph Roth, pubblicato nel 1939 poco prima della morte, alcolizzato come il protagonista della sua novella.
Racconta di un ubriacone originario dell’Impero austro-ungarico, esule a Parigi per motivi giudiziari, al quale, nelle ultime settimane di vita, capitano un imprevisto e miracoloso susseguirsi di eventi. Riceve in prestito 200 franchi da un misterioso benefattore, dei quali promette la restituzione in forma di offerta alla cappella di Santa Teresa di Lisieux, oggetto della devozione del benefattore. Ma il nobile proposito, moralmente ben presente al bevitore, nel quotidiano della sua vita trova mille ostacoli, tra i quali egli consapevolmente si perde. Tra amici, bevute colossali e donne di discutibili costumi, riperde varie volte quanto la miracolosa provvidenza gli rimette in mano, fino all’emblematico epilogo, nel quale trova la “più bella e lieve” delle morti proprio quando è finalmente sul punto di saldare il suo debito.
Olmi e Kezich dilatano l’equilibrio perfetto delle stringate pagine di Joseph Roth in un film a tratti prolisso, didascalico senza motivo, ma filmato con maestria in una fotografia rarefatta e raffinata, che rende gli esterni parigini alla stregua di un paesaggio dell’anima (secondo alcuni). Ciononostante il film coglie con sufficiente pienezza le tematiche chiave del racconto, almeno quelle più care al cattolico Olmi. La principale delle quali parrebbe essere la Salvezza, in senso cristiano cattolico, ma anche più ampiamente intesa come la compassione e la comprensione che ogni essere umano merita al di là delle proprie imperfette azioni.
Il film tratta anche dell’ineluttabilità del destino di ciascuno, e come questo si coniughi col Destino ultimo – in senso cristiano – dell’umanità tutta. Il bevitore continua a peccare nonostante si senta moralmente riconoscente per i continui miracoli ricevuti, che intervengono come metaforici richiami del Dio che vuole salvare tutta l’umanità, ma che lascia all’Uomo anche il bene prezioso del suo libero arbitrio, la facoltà di operare in libertà le proprie scelte individuali. Considerazioni che Olmi lascia prevalentemente alla sensibilità dello spettatore, secondo una messa in scena costruita su silenzi significanti e intensi primi piani.
A livello stilistico il Santo Bevitore è forse il film più riuscito del regista, anche se in merito alla sua effettiva valenza artistica esistono due interpretazioni quasi antitetiche. Da una parte, c’è chi lo considera oleografico, cioè con una ricercatezza formale sproporzionata rispetto al significato che intende trasmettere; chi afferma che il suo contenuto, di carattere religioso, denoti un eccessivo “sentore di sacrestia”; chi accusa il suo regista di “megalomania autoriale”. Dall’altra parte, invece, c’è chi lo considera esteticamente perfetto nel rendere lo spirito dei personaggi, la poetica delle atmosfere e delle idee del racconto, spingendosi a sostenere che il testo di Joseph Roth prenda dal film di Olmi nuova vita, che l’autore bergamasco ci aiuti a “capirlo meglio, a penetrarlo in profondità”.
Capolavoro o meno che sia, il film premiato trent’anni fa con indubbio merito a Venezia rivela un Olmi onesto con la sua arte, animato da buonissime intenzioni. È chiarissimo il suo assoluto tendere a un cinema che sia soprattutto elaborazione linguistica, ordinariamente non finalizzata a magnificare sé stessa, ma volta a costruire opere filmiche significative, soprattutto per il piacere di identificazione e di sano pathos del pubblico. Con un film come La Leggenda del Santo Bevitore il pubblico, magistralmente – anche se un po’ furbescamente – imbeccato, rimane toccato, quasi incantato dal tema profondo e alto del racconto, che alla fine è ciò che principalmente conta.