Egregio direttore,
ho la doppia cittadinanza, tedesca e italiana, poiché sono figlia di un’italiana emigrata con la sua famiglia in Germania negli anni del dopoguerra. Ho seguito a distanza il dibattito sui recenti referendum in Italia e non provo nemmeno a nascondere il senso di inutilità che mi ha assalito, leggendo (e vedendo sui canali televisivi italiani) pareri quasi diametralmente opposti sull’unico argomento in qualche modo comprensibile per chi è cresciuto e vive all’estero. A tutto questo si aggiunge la lamentela per la mancanza di democrazia di chi ha esortato a non votare per boicottare i referendum (un istituto che in Italia esclude le materie di politica internazionale o fiscale: e già qui c’è, all’origine, un deficit di democrazia!).
Anche in Germania è aperto un dibattito sull’allargamento della cittadinanza e, anche qui, a sostenere la concessione facilitata è stata soprattutto la sinistra, non da ultimo perché considera i secondos, ovvero i figli degli immigrati, come una propria riserva elettorale. In realtà, abbastanza a torto, dato che recentemente abbiamo avuto anche un partito islamico che, fortunatamente, ha raccolto pochissimi voti.
Inizio allora con una confessione: non sono andata a votare (qui il voto è per corrispondenza). I referendum sul lavoro ci sono risultati incomprensibili e quello sulla cittadinanza facilitata mi è parso un déjà vu, che non porta da nessuna parte.
In Germania la regola dei cinque anni di permesso di soggiorno permanente esiste già; sono inoltre richiesti sia un esame di lingua, sia il cosiddetto Einbürgerungstest, un test di cittadinanza che attesta la conoscenza delle nostre leggi fondamentali. Inoltre, lo straniero richiedente deve dimostrare di essere in grado di mantenersi e avere la fedina penale pulita.
Questa procedura, voluta per facilitare l’integrazione, ha però finito per equiparare la cittadinanza – cioè l’appartenenza a una comunità nazionale – alla residenza, ovvero all’abitare in un determinato luogo. Il multiculturalismo è rimasto un mito e, nelle nostre grandi città, esistono quartieri o isolati con caratteri fortemente etno-nazionali.
La conseguenza è che, in molte scuole dell’infanzia, sempre nelle grandi città, la maggior parte dei bambini non parla tedesco; spesso alcune delle loro madri, in particolare quelle di religione islamica, vivono chiuse in casa, senza alcun legame reale con la vita delle comunità civiche cui dovrebbero appartenere.
Ricordo, ad esempio, una mia amica insegnante che lavora in una scuola professionale a Colonia: mi raccontava di ragazze adolescenti, figlie di immigrati, che arrivano a scuola con il permesso scritto dei fratelli maggiori o dei padri, e che non partecipano a molte attività extrascolastiche per non esporsi pubblicamente.
In alcune classi, organizzare una semplice gita scolastica o una lezione di nuoto diventa un problema, perché le famiglie vietano alle ragazze di prendere parte ad attività “miste” o che prevedano un contatto con l’esterno. Hanno tutte la cittadinanza tedesca, ma che cos’hanno del nostro modo di vivere?
Questo non è più solo un problema di integrazione linguistica o scolastica, ma di vera e propria segregazione culturale e di limitazione della libertà femminile, perpetuata anche all’interno di una cornice giuridica che dovrebbe garantire diritti uguali per tutti. Evidentemente, il certificato rilasciato dallo Stato civile non basta. Di fatto: gruppi etnici sovrapposti che non si incontrano.
Questi sono alcuni dei cavalli di battaglia di Alternativa per la Germania (AfD), che il neocancelliere Merz spera, o dice, di voler contenere con leggi più restrittive.
Quando i miei nonni materni arrivarono in Germania, la considerazione per gli italiani era bassissima, ma la stragrande maggioranza di loro si rimboccò le maniche e, soprattutto, fece il possibile per rispettare le leggi e il modo di vivere del Paese che li ospitava. A facilitare la loro integrazione – almeno per i miei familiari – contribuì anche la loro volontà di inserirsi, principalmente attraverso la comunità parrocchiale che, va detto, si dimostrò molto accogliente.
Chi entra a far parte di una comunità civica non dovrebbe innanzitutto avanzare delle pretese, ma riconoscersi come ospite rispettoso. Il punto non è la durata di un percorso, ma la sua qualità. I cinque anni che la legge tedesca oggi prevede non garantiscono affatto una forma corretta di integrazione e si prestano a forme, anche pesanti, di strumentalizzazione.
La maggior parte dei cittadini di origine italiana qui è ben inserita e, quando ha acquisito la cittadinanza tedesca, lo ha fatto in base a leggi meno permissive di quelle oggi esistenti e di cui si avvantaggiano persone provenienti da altre nazionalità.
Tra i cittadini tedeschi di origine italiana figurano professionisti a vari livelli, e anche uno dei membri di spicco della Corte costituzionale federale, Udo Di Fabio. A lui, la cui famiglia possedeva originariamente solo la cittadinanza italiana, si deve la sottolineatura che la cittadinanza non è soltanto una funzione giuridica, ma un elemento di identità e appartenenza.
In una delle sue opere più importanti, Staat im Recht (2020) – Lo Stato nel diritto –, descrive lo Stato come un sistema doppiamente vincolato: dal diritto e dalla politica. La politica è lo strumento attraverso cui i cittadini fissano le regole della convivenza, secondo il principio della responsabilità e della solidarietà civica.
Non è un caso che molti italiani, peraltro, non abbiano voluto richiedere la cittadinanza tedesca, pur avendone diritto, per ragioni personali e di scelta culturale.
Il punto determinante è il binomio accoglienza-responsabilità. La concessione della cittadinanza non può essere un automatismo, ma deve sempre rappresentare l’incontro di due esigenze: quella di chi la richiede e quella della comunità che la concede. Si può vivere in una comunità nazionale senza averne la cittadinanza e senza sentirsi stranieri, se accolti. E si può vivere nella stessa comunità nazionale, possedendo la cittadinanza, ma formando gruppi separati.
Da cristiani abbiamo il dovere dell’accoglienza, ma essa non può ridursi a mere pratiche burocratiche. Il disastro delle periferie tedesche è lì a ricordarcelo.
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