Ario sposò la filosofia greca e negò la divinità di Cristo. Contro di lui, il Concilio di Nicea riaffermò la Trinità. Ecco perché i padri prevalsero
La teologia ariana fiorì dentro la cultura religiosa e filosofica del IV secolo, fu condivisa da molti vescovi e per tale motivo provocò la convocazione nel 325 del primo concilio ecumenico. Ario (Cirenaica, 256 – Costantinopoli, 336) deve la sua formazione teologica all’ambiente di Antiochia e in particolare all’insegnamento di Luciano, molto attento a una comprensione storica della Scrittura. Egli indicava al discepolo che l’obbedienza alla legge divina è il giusto atteggiamento morale di fronte agli interventi storici del Mistero.
Quell’ambiente spirituale era molto distante dall’atmosfera culturale che si respirava ad Alessandria. Questa famosa città fu uno dei principali luoghi in cui fiorì quella strana e particolare combinazione di speculazione pagana e cristianesimo noto come gnosticismo. Inoltre, la maggior parte degli ebrei lì residenti aveva perso il contatto con la lingua ebraica e quindi sentì il bisogno di tradurre in greco l’Antico Testamento (la Settanta).
Il più insigne esponente di questo gruppo religioso fu Filone di Alessandria (20 a.C. circa – 45 d.C. circa), che lasciò una significativa eredità. La sua originalità consisteva nell’aver interpretato la Scrittura, in particolare la creazione, con le categorie della filosofia platonica e di aver introdotto la lettura allegorica del testo sacro. Sempre lì vennero piantati da Ammonio Sacca i semi del neoplatonismo, una geniale revisione del pensiero di Platone. La comunità cristiana di Alessandria, cresciuta in questo contesto, aveva prodotto una scuola, aperta in parte anche ai pagani, nella quale insegnarono Clemente ed Origene. Essi cercarono, se pur in modi diversi, di intrecciare la coscienza cristiana con la filosofia ellenistica.
Origene nel De Principiis aveva tentato una esposizione sistematica del cristianesimo fortemente impregnata di platonismo. In particolare, sostenne che la creazione è originariamente immateriale e che le anime, con la loro caduta, per sazietà di contemplazione del mistero nel quale Dio si teneva nascosto, hanno provocato la creazione del mondo materiale (seconda creazione). Da qui nasce tutta una particolare interpretazione della storia della salvezza. Da quando il presbitero Ario servì nella periferia di Alessandria, cominciò a interpretare la Scrittura applicandovi le categorie della cultura ellenistica.
Fu convinto da questa che l’unità di Dio è incompatibile con la pluralità delle persone divine e che una sua più attenta e avanzata lettura della Scrittura portava inevitabilmente a nuove formulazioni della fede. Nella sua interpretazione non ha saputo distinguere l’attività personale del Padre (generazione e spirazione) dalla attività unica della volontà comune alle divine persone (creazione).
Poiché la Scrittura documenta che Cristo è innegabilmente uomo, Ario sostenne che egli non può essere Dio allo stesso modo del Padre. Solo il Padre è veramente Dio, invece non lo sono né il Logos, il Verbo, né lo Pneuma, lo Spirito. Così fece emergere in modo drammatico l’importante problema di quale sia il criterio dell’interpretazione della Scrittura. Di fronte alla sua teologia condivisa e supportata da molti vescovi, si dovette fare una scelta precisa e decidere se il criterio ermeneutico è la Tradizione, cioè la vita in Cristo, o la cultura e la filosofia di una particolare epoca.
Atanasio di Alessandria, detto il Grande (295-373), ancora diacono al Concilio di Nicea, fu con il proprio vescovo Alessandro tra i più decisi oppositori della nuova eresia che aveva contaminato ormai molte regioni dell’Impero romano. Più tardi, nel Contro gli Ariani, fece una serrata critica a tutte le forme nelle quali si espresse questa dottrina. Per mettere allo scoperto la radice di questa posizione eretica Atanasio prese in considerazione alcuni brani della Scrittura citati anche da Ario per sostenere la propria posizione.
Sono fondamentalmente i passi che si riferiscono al messia Sapienza di Dio, all’unzione del Logos, alla crescita di Cristo, al suo innalzamento e alla sua nascita come “primogenito della creazione”. Quando, ad esempio, viene affrontato il passo che proclama che il Padre è “maggiore del Figlio” (Gv 14, 28), Atanasio dice che Ario lo riferisce alla sola umanità di Cristo che è pertanto concepita come una sussistenza (persona) umana creata e non al Logos incarnato. Per Atanasio realmente esistente è solo il Logos incarnato e non l’umanità di Cristo, che non esiste da sola ma è reale perché è inserita (enipostatizzata) nella persona divina.
I cristiani di tradizione bizantina non si limitano a celebrare l’anniversario secolare di Nicea (1700 anni), ne fanno memoria ogni anno nella domenica tra l’Ascensione e la Pentecoste. Quest’anno tale memoria avviene il primo di giugno. I monaci poeti che, circa nel sec. IX, hanno composto le strofe che vengono cantate nella domenica dei Santi padri di Nicea, ripropongono in modo chiaro quale sia il nucleo dell’eresia e la solenne proclamazione del simbolo niceno.
Affermano che Ario ti “glorifica come creatura, non come Dio, mescolando sfacciatamente la creatura e il suo autore e meritando così il fuoco eterno” (strofe del Vespero). Egli ha lacerato con tracotanza e in modo blasfemo la fede comune poiché separa e “divide nella Trinità l’eguale gloria e l’eterna maestà”. Mostra una percezione distorta, esprime una visione falsata, predica una dottrina gravemente erronea nei riguardi di Gesù Cristo “considerandolo mortale anche se in lui è creato tutto l’universo” (ibidem). Distrugge il cristianesimo dividendo “l’unico principio della Santissima Tri-unità in tre essenze non uguali e di diversa origine” (ibidem).
Qui è ben presentata la posizione di questo colto ma presuntuoso ed arrogante teologo che, credendo di aver compreso in modo più profondo il cristianesimo, si è lasciato irretire dai principi della filosofia ellenistica ed ha letto la Scrittura in modo ideologico.
Secondo la sua visione Cristo è un uomo certamente eccezionale ma solamente un uomo. “Chi ha lacerato la tua tunica, o Salvatore? Il folle Ario, tagliando in parti il potere di pari dignità della Trinità. Egli ha negato che tu fossi Uno della Trinità, è lui che insegna a Nestorio a non usare il termine Madre di Dio” (ibidem).
Un monaco poeta poi sottolinea con immagini suggestive la grandiosa proclamazione del concilio. “Riunita insieme tutta l’esperienza pastorale e mossi a giustissimo sdegno, ben giustamente i divini pastori, come sincerissimi servi di Cristo e santissimi iniziati al divino annuncio, hanno scacciato i lupi feroci e distruttori, colpendo con la fionda dello Spirito coloro che dalla pienezza della Chiesa erano caduti come nella morte, quasi malati di morbo inguaribile” (ibidem).
In queste strofe sono poeticamente affermati i temi fondamentali che esprimono tutta la profondità della vita cristiana. Esse proclamano che il cristianesimo è un avvenimento, annuncio di un fatto che è salvezza dell’uomo e significato totale della vita, l’esegesi e l’ermeneutica della Scrittura sono fondate sull’ esperienza di un evento, la Trinità è mistero che si manifesta rimanendo mistero, il Logos di Dio è della medesima sostanza del Padre, assume la natura umana e la salva perché porta a termine in sé il compito fallito da Adamo, la vita cristiana è comunitaria, l’autorità è amicizia e servizio, la sinodalità è espressione ed effetto dell’unità dei credenti.
I Padri di Nicea ottennero questi risultati e li annunciarono perché vissero la dimensione comunionale del cristianesimo. Mostrarono che essa non è una dottrina da argomentare in un discorso intellettuale, neppure è un atteggiamento morale che si esprime in un progetto da pianificare o una iniziativa da realizzare pluralmente. È un “come essere e non una cosa fare“, è dimensione ontologica dell’io cristiano innestato nella umanità deificata di Cristo. Poterono proclamare che la Trinità è fondamento della realtà perché vissero nella concretezza della loro vita e della loro funzione questa dimensione comunitaria.
Questa visione della realtà e del cristianesimo è il contributo essenziale offerto dal concilio, intimamente intrecciato con la solenne affermazione che Cristo è uno della Trinità ed è coeterno con il Padre. Le fonti che possediamo mostrano bene che tale risultato ottenuto nel concilio è stato il frutto non di intensità speculativa ma di esperienza esistenziale della vita in Cristo. Essa, vissuta dai Padri, è stata decisiva nella lotta per liberarsi dalla sudditanza della speculazione ellenistica ed evitare l’abisso nel quale sono caduti gli eretici che hanno stravolto il cristianesimo per affermare la loro concezione intellettualistica di Dio.
Ciò è stato possibile perché prima della riflessione e ancora prima del discorso apodittico (espositivo) hanno gustato a fondo la comunionalità della vita cristiana. Non si sono limitati ad anatemizzare una esposizione dottrinale che non corrispondeva alla loro esperienza, ma hanno tenuto la dottrina in equilibrio organico con la vita, con l’esperienza personale della intuizione esistenziale della presenza di Dio.
Una delle migliori analisi dello sviluppo della dinamica teologica dei Padri greci è sicuramente quella di J. Zizioulas (1931-2023), metropolita del patriarcato di Costantinopoli. Nel suo articolo Verità e comunione (in L’Être ecclésial, Paris, Labor et Fides, 1981) mostra che i Padri greci riuscirono con fatica a liberarsi dall’abbraccio mortale della speculazione greca. Gli apologeti come il martire Giustino, i teologi alessandrini usciti da quella scuola non poterono evitare completamente la trappola del monismo ontologico espresso dal neoplatonismo, perché si sbilanciarono in modo eccessivo verso l’interpretazione dottrinale del cristianesimo.
Ario, con i suoi sostenitori e continuatori, cadde in questa trappola mortale e ne fu totalmente travolto. Al contrario, i vescovi che si presentarono come teologi pastori, come Ignazio di Antiochia, Ireneo e più tardi Atanasio il Grande, educarono le loro comunità non ad una dottrina ma ad una vita di fede con la quale percepivano la presenza di Dio in una esperienza dentro l’unità dei credenti concepita come esistenzialità ecclesiale. La Chiesa, infatti, secondo il suo contributo teologico, non è semplicemente una istituzione ma prima di tutto una modalità di esistenza. Solo vivendo il cristianesimo, cioè, vivendo la Chiesa come immagine della Trinità, poterono vincere lo scontro con Ario ed i suoi seguaci.
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