Il vaticanista statunitense John Allen – da molto tempo annoverato fra i più autorevoli – ha iniziato sul suo portale Cruxnow una serie di schede-profilo dei cardinali papabili. La prima è stata dedicata al segretario di Stato, Pietro Parolin; la seconda all’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi (la terza all’arcivescovo di Budapest, Peter Erdo; la quarta all’arcivescovo di Kinshasa, Fridolin Ambongo Besungu).
La scelta di Parolin come primo della lista è suggerita – secondo Allen – dalle forti analogie fra la situazione geopolitica del 2025 e quella del 1939: quando un conclave-lampo elesse Papa il segretario di Stato, Eugenio Pacelli, alla vigilia di una probabile nuova guerra mondiale. E se il futuro Pio XII aveva vissuto da nunzio in Germania la genesi della lunga crisi europea fra le due guerre, Parolin appare oggi uno dei pochissimi cardinali “con le credenziali per sedersi al tavolo con Donald Trump, Vladimir Putin e Xi Jinping”.
Allen si sofferma in dettaglio sul cursus di un sacerdote nato nel Nordest italiano, ma subito arruolato dalla diplomazia vaticana. Nella nunziatura in Nigeria il giovane Parolin ha osservato da insider la guerra civile del Biafra ed è stato poi protagonista della normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra la Santa Sede e il Messico, dopo 130 anni di bandi laicisti.
Tornato in Segreteria di Stato come sottosegretario alle relazioni con gli Stati, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II ha gestito in prima persona la “ostpolitik” asiatica della Santa Sede: in Vietnam e poi soprattutto in Cina. Papa Benedetto lo ha poi inviato nel Venezuela di Hugo Chavez, su un teatro critico sia per la Chiesa che per la diplomazia internazionale.
Papa Francesco lo ha infine richiamato a Roma come segretario di Stato: a capo di un dicastero “primus inter pares” nella Curia romana, che tuttavia il pontefice argentino ha voluto restituire alla sua missione originale di presidio geopolitico della Santa Sede.
“Poche figure hanno servito Papa Francesco più a lungo o meno lealmente di Parolin”, afferma Allen, citando come un indiscutibile “centerpiece achievement” l’Accordo provvisorio con la Repubblica Popolare di Cina. Cioè con la superpotenza globale che sarà chiamata a ridefinire gli equilibri globali assieme agli Stati Uniti (dove il segretario di Stato è conosciuto e stimato da sempre).
Quali sono invece le ragioni degli scettici sulla candidatura Parolin? Allen le sintetizza in un dato statistico: prima di Pacelli bisogna risalire al 1667 per trovare un segretario di Stato vincente in conclave (anche se Paolo VI – eletto nel 1963 da arcivescovo di Milano – aveva lasciato la Santa Sede otto anni prima come pro-segretario di Stato).
Lo stesso Parolin può ritrovarsi a soffrire dei due handicap usuali per un segretario di Stato sulla porta della Cappella Sistina. Il background oppone quasi per definizione a tutti i segretari l’assenza di esperienza pastorale e la debolezza di un carisma che è tipicamente proprio di un Papa regnante. E che spesso lascia in eredità al suo segretario di Stato – rimasto nell’ombra – anche gli attriti inesorabilmente maturati fra il Pontefice, la Curia e gli episcopati nazionali nei rapporti con i governi.
Zuppi è invece il papabile cui Allen riconosce con più immediatezza i connotati di un potenziale “Papa Francesco II”. Se il prossimo conclave imboccherà una direzione analoga a quella del 2005 – quando in soli quattro scrutini i cardinali chiamarono Joseph Ratzinger a continuare l’apostolato petrino di Karol Wojtyła – le chance del presidente della Cei appaiono indubbiamente alte.
Le probabilità diminuirebbero però subito se gli elettori entrassero nella Sistina avendo maturato un intento più o meno condiviso di correzione degli indirizzi di Papa Francesco. Il quale – sottolinea Allen – nel 2013 non era fra i favoriti mediatici, ma fu eletto in soli cinque scrutini anche perché incarnava una risposta pronta e credibile a un’esigenza di cambiamento chiaramente maggioritaria in conclave (ed emersa già nel 2005 proprio sul nome dell’arcivescovo di Buenos Aires).
La forza interna ed esterna della candidatura Zuppi, articola Allen, è tutta nel ricco percorso ecclesiale condotto da leader della Comunità di Sant’Egidio, a fianco del fondatore Andrea Riccardi. È “l’entusiasmo” subito mostrato da papa Francesco per la Comunità sorta per promuovere il Concilio Vaticano II che ha portato il sacerdote romano al rango di “figlio prediletto” del Pontefice, che gli ha infine assegnato anche il ruolo para-diplomatico di suo inviato straordinario in Ucraina.
Il curriculum particolareggiato da Allen mette d’altronde in risalto in Zuppi anche un importante Dna vaticano: il padre ha lavorato all’Osservatore Romano e sua madre era nipote del cardinale Carlo Confalonieri, primo prefetto della Congregazione dei Vescovi.
“Pastore molto dotato”, Zuppi potrebbe tuttavia dover affrontare in conclave correnti contrarie complesse. È oggi un vescovo diocesano ma nato e cresciuto in un movimento ecclesiale (Allen non lo rammenta espressamente, ma nel 2013 fu Cruxnow a sottolineare nell’appartenenza a CL una causa importante della mancata elezione del cardinale Angelo Scola, che pure proveniva da due sedi vescovili “papali” come Venezia e Milano).
Il profilo cita un giudizio sferzante dello scomparso cardinale australiano George Pell, secondo cui “se Zuppi venisse eletto, il vero Papa sarebbe Riccardi”. L’argomento che risuona in molti “circoli critici” di Sant’Egidio è d’altronde che la Comunità appare “impegnata senza posa nell’autopromuoversi e nell’infiltrare circoli di potere ovunque possibile”.
L’articolo non fa alcun riferimento alla recente battuta d’arresto accusata dal Presidente della Cei con la “fumata nera” sul documento finale del Sinodo della Chiesa italiana. Osserva invece come Zuppi possa sembrare “un po’ troppo politico per essere considerato un buon mediatore fra le parti”: come quando “l’anno scorso ha pubblicamente sollevato dubbi su una proposta di riforma costituzionale volta ad elezione diretta del primo ministro italiano”. Un passo che “ha segnato una chiara rottura su una priorità del governo conservatore di Giorgia Meloni”.
Ma difficilmente poteva essere diversamente per un cardinale destinato da papa Francesco alla cattedra bolognese: nella città di una “Scuola” che – ricorda Allen – ha tenute vive “le energie del cattolicesimo liberale, di coloro che hanno sempre visto se stessi come i custodi del fuoco del Concilio nel cattolicesimo italiano”.
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