In questi giorni che precedono il conclave, al centro del dibattito alimentato da osservatori e protagonisti, in genere minori, sta il proliferare dell’esame di candidature al papato, ma, con maggiore o minore dettaglio, si moltiplicano anche le indicazioni in ordine alle materie che il futuro pontefice dovrebbe mettere all’ordine del giorno del suo pontificato: dalla curia alle finanze, dalla creazione di nuove strutture collegiali ad interventi su istituti specifici, come il sacerdozio e il ruolo dei laici.
Tra i temi che, secondo la maggior parte degli osservatori, dovrebbero essere all’ordine del giorno del futuro pontefice, in quanto costituisce una delle più rilevanti eredità di Papa Francesco, è, a giusto titolo, inserita la “sinodalità”, che è stata l’oggetto delle due sessioni della XVI assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, chiuse lo scorso mese di ottobre.
Non vi è dubbio che si tratti di un tema centrale per la vita della Chiesa, non solo perché si presenta come un elemento di continuità con il pontefice appena scomparso, ma anche perché tocca una delle questioni centrali della riflessione sulla Chiesa apertasi con il Vaticano II.
Dentro questo nozione, però, a differenza che negli altri temi indicati, sono contenute una molteplicità di questioni che vanno dalla modalità di svolgimento di processi decisionali al rinnovamento delle strutture, dalla partecipazione più ampia dei fedeli alla potestà di governo ad una maggiore collegialità nel governo della Chiesa universale.
La vera questione, tuttavia, è che trovare soluzioni a tali problematiche comporta la necessità di precisare i contenuti da sottoporre a questi organismi, visto che si tratta anche di verificare il complesso dei poteri che, in campo dottrinale o disciplinare, essi possiedono, l’incidenza in essi della sacra potestas e la possibilità per i fedeli di parteciparvi.
In definitiva, il rischio che si presenta, se non si risolvono a monte i nodi indicati (ma se ne potrebbero elencare anche altri), è quello di creare assemblee la cui funzione sarebbe più vicina ad un locus di sensibilizzazione piuttosto che di governo del popolo di Dio.
Davanti ad una tale complessità di riferimenti e di obiettivi, pare necessario tentare di trovare un filo conduttore. Credo che il punto di partenza unificatore possa essere la nozione di comunione come elemento capace di dare unità a quanto appare contenuto dalla parola “sinodalità”: la comunione vista come principio cui rispondono gli organismi che esprimono il mistero della comunione ontologica della chiese, o intesa come criterio che presiede alle modalità con cui i fedeli vivono le loro relazioni e, di conseguenza, le strutture sinodali cui sono chiamati a partecipare.
La nozione di “comunione” è al centro di un documento del 1992 della Congregazione della dottrina della fede, la Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione. In essa si indica nella comunione il fondamento del rapporto tra Chiesa universale e chiese particolari, in quanto “la Chiesa universale è perciò il Corpo delle Chiese, per cui è possibile applicare in modo analogico il concetto di comunione all’unione delle Chiese particolari” e “intendere la Chiesa universale come comunione di Chiese”.
La Lettera qualifica poi la comunione come “la nuova relazione tra l’uomo e Dio, stabilita in Cristo e comunicata nei sacramenti” che “si estende alle nuove relazioni degli uomini tra di loro”.
Alla base della sinodalità c’è quindi una nuova dimensione antropologica che riguarda tutti i fedeli e che definisce anche il mistero del rapporto tra le Chiese particolari e la Chiesa universale, in quanto “la comunione universale dei fedeli e la comunione delle Chiese costituiscono la stessa realtà vista da due prospettive diverse”.
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