Durante i novendiali in suffragio di Paolo VI, nell’agosto 1978, il cardinale Giuseppe Siri si sentì in dovere di avvertire i confratelli che avrebbero dovuto cooperare “con fatica di uomini” all’azione dello Spirito Santo nella Cappella Sistina. L’arcivescovo di Genova aveva alle spalle due conclavi, si accingeva a partecipare al suo terzo e non sapeva ancora che poche settimane dopo avrebbe preso parte anche a un quarto. Nel 1958 fu uno fra 51 elettori, nel 1963 uno fra 80, nel 1978 (per due volte) uno fra 111. In tutti i conclavi fu papabile o Papa-maker.
Ne 1978 si ritrovò a giocare in entrambi i ruoli. In agosto fu grande suggeritore-mediatore ed ebbe successo con l’elezione-lampo di Albino Luciani, verosimilmente preparata “con fatica di uomini” allorché la salute di Papa Montini declinava. Nel conclave di ottobre – imprevisto anche nell’effetto-terremoto su equilibri appena raggiunti – Siri fu obbligato a scendere in campo personalmente: sfiorò il Soglio, ma non riuscì a prevalere nel duello tutto italiano con Giovanni Benelli. La sua definitiva uscita di scena maturò in ogni caso nella forte soluzione di continuità segnata dall’elezione di Karol Wojtyła.
I due schemi del 1978 non hanno perso significatività nel disegnare le “dinamiche dello Spirito Santo” in un conclave contemporaneo. Assieme ai progress dei due ultimi conclavi, nel secolo corrente, restano parte di un “manuale di istruzioni” non trascurabile alla vigilia della scelta del successore di Papa Francesco.
Alla morte di Paolo VI sul conclave soffiava ancora forte il vento del Concilio. In sé era stato un successo dell’ala riformatrice, che aveva battagliato nel conclave 1963 per imporre un Papa “conciliare” e sventare i rischi di fallimento anticipato del Vaticano II. Ma le fratture lasciate dal Concilio erano ancora visibili più di un decennio dopo, anche nel collegio cardinalizio. Fu questo scenario a indicare la via del compromesso a due figure-guida: Siri, 72enne leader conservatore dell’episcopato italiano, e Benelli, 56enne sostituto alla Segreteria di Stato con Paolo VI, appena approdato a Firenze per un rodaggio pastorale.
Tutte le linee di transizione/decantazione tratteggiate nell’elezione di Giovanni Paolo I erano chiaramente leggibili: fra Curia e grandi diocesi; fra istanze innovatrici messe nero su bianco dal Concilio e freni tradizionalisti; anche fra una Chiesa molto italo-centrica e le forti aperture al mondo impostate da Paolo VI.
Fu così che il Patriarca di Venezia entrò Papa in conclave, benché non illuminato dai fari mediatici. Lui stesso, certamente, non fece nulla per accreditarsi come papabile. Contro il suo sincero desiderio di tornarsene a Venezia giocò il fatto che da lì erano giunti a Roma due Papi del ventesimo secolo, tra i quali fra cui Papa Giovanni XXIII, che aveva indetto il Concilio.
Sette settimane dopo, scomparso improvvisamente il “Papa del Sorriso”, la Cappella Sistina fu invece teatro di uno scontro campale. Siri e Benelli si confrontarono per un’intera giornata: quattro scrutini di muro contro muro, a caccia dell’ultimo voto. Che però non ci fu per nessuno dei due (e ancora oggi gli storici dibattono se a mancare di poche schede l’elezione sia stato l’uno o l’altro). Il “piano B” era però già pronto, su premesse abbastanza lineari.
Se i cardinali italiani (una trentina) avevano certificato la loro spaccatura interna, era l’ora di un Papa non italiano. E già nel conclave di agosto era spuntato come papabile vero (cioè destinatario di alcuni voti segnaletici di stima) l’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyła. Un “giovane leone” del Concilio (come il successore Joseph Ratzinger) ma proveniente da un Paese in cui il ruolo della Chiesa (dottrinale e geopolitico) non poteva dare adito a dubbi.
Una figura dal profilo forte sia dentro che fuori la Chiesa: una soluzione sicuramente diversa dal “compromesso italiano” alle sfide poste sia dall’accidentato dopo-Concilio, sia dalla crisi incipiente del blocco sovietico. I cardinali-pastori europei – già importanti nell’elezione di Angelo Roncalli e Giovanni Battista Montini – completarono così un percorso di moderna ripresa di protagonismo nel governo della Chiesa.
Entrambi i conclavi del secolo in corso hanno proposto uno svolgimento diverso dai due precedenti: in parte sovrapponibile fra 2005 e 2013, anche se con esiti differenti.
Alla morte di Giovanni Paolo II la spinta alla continuità era nella composizione stessa del Sacro collegio, quasi interamente costruito dal Papa scomparso. Che aveva lasciato un autentico “erede designato”: il cardinale Joseph Ratzinger. Un teologo e arcivescovo europeo chiamato a Roma per guidare la Dottrina della fede; un peso massimo della Curia ma allo stesso tempo una figura intellettuale riconosciuta ovunque sul pianeta; non da ultimo: un porporato relativamente anziano dopo un pontificato durato quasi un trentennio.
Ratzinger entrò “primo papabile” in un conclave che fin dal primo scrutinio esplorativo si trasformò in un referendum su di lui. Il test riuscì subito il giorno dopo (negli ultimi cento anni, uno solo conclave è durato più di due giorni); ma non senza un’importante azione di contrasto. I cardinali che non condividevano il lascito di Papa Wojtyła non poterono contare sul loro “campione”, ossia l’arcivescovo emerito di Milano, Carlo Maria Martini, presente in Sistina ma non più nel pieno della sua salute.
Era quindi escluso a priori un match aperto fra i due competitor naturali, di pari curriculum e prestigio. Fu seguita un’altra strada: il via libera a Papa Benedetto fu preceduto dalla convergenza dimostrativa di un pacchetto molto consistente di voti (quasi una minoranza di blocco) su un nome tutt’altro che contingente.
Ad esserne protagonista fu il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio, gesuita come Martini e vicino alle sue posizioni, titolare di una grande sede metropolitana di rilievo internazionale, nel “Sud globale” che non si chiamava ancora così. La portata strategica di quell’iniziativa di “difesa elastica” si compì otto anni dopo: nel conclave che elesse Papa l’arcivescovo di Buenos Aires.
Nel 2013 – dopo la drammatica rinuncia di Benedetto XVI – non mancò la riproposta di un Papa di continuità dottrinale, anche se di chiaro superamento anagrafico e di stile di governo rispetto ai due pontefici precedenti. Il 72enne cardinale Angelo Scola – arcivescovo di Milano come Pio XI e Paolo VI e prima ancora Patriarca di Venezia come Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I – presentava un curriculum unanimemente giudicato fra quelli di maggior spicco nel Sacro collegio.
Per questo i pronostici della vigilia lo dipingevano come il protagonista annunciato di un nuovo referendum: che in effetti ci fu, ma diede esito negativo. Ancora una volta – secondo la maggioranza delle ricostruzioni – giocarono in misura importante le divisioni fra i porporati italiani. Ancora una volta il “piano B” era pronto. Come e più che nel secondo conclave 1978, contò la papabilità certificata non dai media, ma dal conclave precedente. E senza alcuna preclusione per un Papa “dalla fine del mondo”: non molto conosciuto a Roma, in Europa o sul già nato proscenio della Rete.
A pochi giorni dal conclave 2025 – in attesa di ricostruire il suo schema a risultato acquisito – sono possibili solo poche annotazioni. Fra i 133 cardinali formalmente elettori, solo 5 hanno partecipato a entrambi i conclavi precedenti e 22 al conclave di dodici anni fa. Fra questi compare l’arcivescovo di San Paolo del Brasile, Odilo Scherer, cui numerose fonti attribuiscono alcuni voti nel primo scrutinio esplorativo del 2013.
I tre “contender” principali di Bergoglio in quelle votazioni sono tutti ancora in vita e teoricamente tutti eleggibili; ma sono tutti “over 80” e non saranno in Cappella Sistina (né si hanno notizie di loro partecipazione attiva alle congregazioni generali). Oltre a Scola sono il canadese francofono Marc Ouellet, allora prefetto della Congregazione dei Vescovi; e Sean Patrick O’Malley, l’arcivescovo di Boston, leader dei porporati Usa che allora risultarono quasi decisivi nell’orientare il collegio a favore di Bergoglio.
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