Il primo canone della sezione del codice di diritto canonico latino, che tratta della suprema autorità della Chiesa, il can. 330, recita: “Come per volontà del Signore, san Pietro e gli altri Apostoli costituiscono un unico Collegio, per analoga ragione il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono tra di loro congiunti”.
La mia breve riflessione, che non vuole soffermarsi sul problema della collegialità episcopale, peraltro evocato nel canone, si propone, a partire dal testo di questi canoni, di suggerire alcune note sul significato dell’elezione del nuovo papa, che non possono non partire da questo testo che riprende, nella sostanza, quanto scritto in Lumen gentium e nella Nota esplicativa previa che l’accompagna.
L’elezione del nuovo papa, vale a dire del successore di Pietro, si colloca nel compiersi di quanto delinea il canone successivo, per il quale “il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale”. Il munus petrino, sulla base di questo testo, include anche il compito di trasmetterlo ai successori.
Quello che accadrà in conclave, l’elezione del Vescovo di Roma, è resa possibile anche dal fatto che tutti coloro che l’hanno preceduto, in obbedienza al mandato di Cristo, hanno trasmesso integra al nuovo eletto la missione, anche se una tale qualificazione può apparire una semplificazione, assegnata dal Signore al primo degli Apostoli.
In questa prospettiva, tutti i pontefici hanno contribuito, ciascuno, attraverso la loro propria obbedienza, ai doveri connessi all’ufficio di vescovo della Chiesa di Roma, così come attraverso la fede personale con cui l’hanno fatto, a consegnare intatto quanto è stato affidato da Cristo a Pietro. Ogni semplificazione che volesse ricondurre unicamente a Pietro il munus derivante dal Signore, o, viceversa, che vedesse in un pontefice il creatore diretto e, in un certo senso, autonomo di una parte del munus, deve essere guardata come una riduzione di ciò che il diritto della Chiesa, ispirandosi ai testi conciliari, prevede in ordine a quanto avviene in conclave.
Risulta così chiaro il senso delle parole che, nel codice, seguono quelle che abbiamo commentato e che costituiscono il contenuto del munus petrino: il Romano Pontefice è il capo del Collegio dei Vescovi, vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale, su cui ha una potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale che può sempre esercitare liberamente.
L’eredità di ogni pontefice, che ha esercitato liberamente la sua potestà, è la sua fedeltà al mandato originario, la quale rende possibile al successore di esercitare altrettanto liberamente la potestà che riceve con l’elezione, nella medesima fedeltà a quel mandato.
La successione petrina – ma un ragionamento analogo può essere fatto a proposito della successione apostolica attraverso la ricezione del sacramento dell’ordine sacro, che presiede al munus dei vescovi – non è una semplice sequela temporale in un ufficio – o, per i vescovi, nella ricezione del sacramento –, ma partecipazione al mistero ecclesiale che ne è la fonte.
Se, nel caso del vescovo della Chiesa di Roma, si cancella la duplice natura del munus, la sua origine in Pietro e la successione che ne ha permesso la fedele trasmissione, diventa difficilmente comprensibile quanto prevede il diritto della Chiesa in ordine all’elezione del Papa.
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